lunedì 19 dicembre 2011

su il sipario! di Valentina Grignoli
‘Sagra’, il sacrificio alla primavera si fa danza creativa con il Progetto Brockenhaus

da 'LaRegioneTicino' del 19 dicembre 2011
"Il mistero dell’improvviso sorgere del potere creatore della primavera. Non c’è storia...". La citazione è di André Boucourechliev, da Stravinsky,e la leggiamo sul retro del programma di scena di Sagra , presentato da Progetto Brockenhaus sabato sera allo Studio Foce (nel programma di Home ). In scena un mistero, più misteri, la creazione incalzante, e un ritmo, una composizione, che ci condurranno, senza storia apparente e in crescente tensione, alla sfrenata danza di un finale vorticante.
Progetto Brockenhaus, gruppo di teatro di movimento formatasi nel 2008 da sei danzatori-attori, si è ispirato per Sagra all’opera di Stravinsky, quel Sacre du Printemps che il 29 maggio del 1913 scandalizzò Parigi. Le testimonianze scritte del debutto con le coreografie di Nijinsky, i diari dello stesso contestato coreografo (al quale peraltro fu attribuita parte della responsabilità del fiasco), ma in primis la musica stessa, fanno da motore alla creazione di questo prezioso spettacolo.
 
La compagnia, affascinata dal leggendario scandalo in occasione del debutto dell’opera musicale, ha voluto «restituire una propria rilettura di gesti e sensazioni che la messa in scena provocò in tale occasione», e allora saranno rappresentati a turno e in una danza continua i ballerini, il coreografo, il direttore di scena. Sul palco dello Studio Foce non viene messo in scena il rituale stesso della Sagra che aveva ispirato Stravinsky, quel rito sacrificale pagano nella Russia antica all’inizio della primavera, nel quale un’adolescente veniva scelta per ballare fino alla morte con lo scopo di propiziarsi la benevolenza degli dei in vista della nuova stagione, ma ne risentiamo continuamente l’eco. Grazie alla musica, che appare e scompare e ci tiene sospesi, e grazie soprattutto alla danza dei quattro attori, che con grazia e potenza ci riportano dalla dimensione primitiva del rituale alla frenetica forza di un ritmo devastante.

Un regista visionario dirige la scena con un megafono, dando forma alle proprie visioni. E allora uomini in completo con maschere di scimpanzé – contemporanei King Kong –, iniziano una danza sotto il suo sguardo trasognato e attento, interrotti poi da una provocante Marilyn Monroe che dirompe con la sua femminilità sul palco, e continuamente la figura di Pier Paolo Pasolini che torna sulla scena. 

Il nostro immaginario creativo contemporaneo incontra così le parole di Nijinsky in uno spazio scenico che vuole sottolineare, nell’intento della compagnia, 
come sia facile farsi « fagocitare dalla vita nel tentativo di realizzare le proprie idee ».
Uno spettacolo performance, Sagra , una danza che mette in scena la grande bravura dei ballerini-performer e che cattura lo spettatore. 
Un evento speciale che merita un grande applauso, perché è un piacere poter assistere a rappresentazioni di qualità, dall’ideazione, alla creazione.
Il Ticino è un terreno fertile, molte sono le creazioni, parecchie le compagnie, ma spesso c’è confusione d’intenti, e diversi sono i livelli delle rappresentazioni in cartellone. Progetto Brockenhaus è una preziosa realtà che qui spicca per la serietà di un lavoro innovativo e di ottimo livello.

sabato 3 dicembre 2011

'Buchettino', rapiti dalla magia del racconto
di Valentina Grignoli da 'LaRegioneTicino' del 2 dicembre 2011

Buchettino 'ascoltava molto e parlava poco'. Settmo di sette fratelli, meglio conoscuto dai più come Pollicino, egli si discosta infatti dallo schema svegliarsi-mangiare-dormire, che permea gli altri protagonisti della celebre favola di Perrault, e con arguzia e coraggio riesce a portare in salvo i suoi fratelli.
Così noi, come lui, spettatori e protagonisti al tempo stesso, veniamo invitati ad ascoltare lo spettacolo 'Buchettino', messo in scena dalla Socìetas Raffaello Sanzio (una delle più innovative compagnie del teatro di ricerca italiano). La magia ha inizio. Il pubblico si ritrova d'incanto in uno stanzone colmo di letti a castello, per taluni la stiva di una barca, per altri una camerata in colonia. Ognuno ha il proprio letto nel quale coricarsi, comodo giaciglio immerso nel profumo di pino ed eucalipto. Siamo tornati bambni e asiamo pronti ad ascoltare la favola, magistralmente raccontata da una narratrice, Monica Demuru, che darà voce a tutti i personaggi facendoli rivivere anche gestualmente. Una sedia, un grosso libro rosso e una lampadina che oscilla sopra l'attrice gli unici oggetti in questa stanza dove il mondo esterno sembra bandito.

La storica creazione (1995) della Compagnia di Romeo Castellucci e Chiara Guidi, che ne curano la regia, non smette di stupire, commuovere e appassionare. Non si tratta semplicemente di ascoltare una fiaba: ogni spettatore è portato a riviverla. Sommersi nell'oscurità, i sensi dell'udito si acuiscono e inizia quel viaggio nel mondo della fantasia che solo da bambini sapevamo compiere. Per tutto il tempo della narrazione, in un climax di tensione che giunge all'estremo con l'arrivo dell'Orco, si odono i rumori di quanto accade. E allora portoni che si aprono, stoviglie, uccellini, passi pesanti che rimbombano invadono lo spazio: una cassa di risonanza che ci porta alla purezza delle sensazioni. Da fiaba, Buchettino diventa un evento privilegiato, dove la voce acquisisce quella particolare funzione impostagli dalla Socìetas: senza essere veicolo di senso, essa si libera dalla parola e acquisisce una forma speciale secondo la quale non è più importante cosa si pronuncia, ma come.

sabato 15 ottobre 2011

happy days - giorni felici a Lugano

Dopo tanto silenzio, il teatro torna a farmi parlare.

Da 'La Regione Ticino' del 15 ottobre 2011

Giorni felici con il nostro teatro
Il debutto del TeatroX apre al Foce ‘Home’, spazio per le compagnie della Svizzera italiana
di Valentina Grignoli



«Un altro giorno divino», esclama Winnie. La tragica eroina di Happy Days , abbassa poi la testa, guarda di fronte a sé, giunge le mani sul petto, chiude gli occhi e si dedica a una silenziosa preghiera «in amor di Gesù Cristo».
Questo l’inizio di una delle opere più discusse di Samuel Beckett e al contempo più rappresentative del suo pensiero. In Happy Days il drammaturgo irlandese mette in scena la semplice e terrificante situazione di una donna di 50 anni, Winnie, interrata nella sabbia prima fino alla vita e poi fino al collo. La donna sembra non accorgersi dell’incresciosa situazione in cui si trova, e continua ‘a recitare’ la vita di tutti i giorni, riempiendola con un chiacchiericcio senza senso che non riceve risposta da parte del marito, Willie. Un dramma borghese, incarnato da due personaggi altrettanto borghesi, sviscerato e svuotato però delle sue componenti significative per mettere in evidenza la cruda realtà di un ostinato attaccamento alla vita, perfino nelle condizioni più estreme.

L’opera di Beckett è stata rappresentata ieri sera al Teatro Foce di Lugano dalla compagnia di Lugano Gandria TeatroX, con Patrizia Barbuiani, nel ruolo di Winnie, e Gabriele Marangoni in quello di Willie (un debutto seguito dalle repliche di stasera e domani alle 20.30). L’opera ha aperto la rassegna Home dedicata interamente alle compagnie, come dice il nome, di casa nostra.
Patrizia Barbuiani, che abbiamo incontrato, a ridosso del palcoscenico, a poche ore dalla prima, ci parla del suo GiorniFelici - HappyDays . La scena è inequivocabile: al posto della distesa d’erba inaridita e del montarucco di sabbia, richieste nelle note di regia beckettiane, troneggia un gigantesco ed emblematico vestito da sposa che imprigionerà la nostra eroina. La Barbuiani aderisce infatti, e ne fa Leitmotiv dello spettacolo, alla teoria di Annamaria Cascetta (professore ordinario in Discipline dello spettacolo), secondo la quale esiste un nesso tra la creazione dell’opera da parte di Beckett nel 1961 e il suo matrimonio di convenienza, avvenuto lo stesso anno con la sua ormai ventennale compagna Suzanne Descheveaux Dusmenil.



«Questo, la coincidenza tra i due accadimenti, è stato il punto di partenza per rivedere lo spettacolo in sé, entrare da una porta particolare». Ci spiega l’attrice Barbuiani, che continua: « Ho trasformato la scena creando l’emblema del matrimonio attraverso il vestito, che si riallaccia però alle direttive di regia: sull’abito stesso ci sono i fiori e l’erba ».
E il testo? « Rimane identico. La sola cosa che abbiamo aggiunto è la musica, creata appositamente ed eseguita dal vivo da Gabriele Marangoni ».
La regista ha deciso di trattare uno dei molteplici aspetti di Happy Days , la situazione di una donna cinquantenne imprigionata nella relazione con il marito Willie. L’opera però si presta anche ad altre tematiche, forse legate più al testo stesso e allo svuotamento di senso del dramma, oppure alla tragicità di una donna che non si rende conto della sua situazione e continua a vedere ‘felici’ i propri giorni... «Infatti, la figura in sé della protagonista e questo suo modo di essere, la sua grande paura del silenzio, lo stato di alienazione vengono riempiti con le parole, con le azioni ripetitive, per non guardare in faccia una realtà e una verità piuttosto scomode ».

Una critica alla vita matrimoniale quindi? « Ci sono molti aspetti toccati da Beckett che fanno parte della vita di una donna, quando arriva a cinquant’anni, e sul tipo di rapporto fra uomo e donna. Nella figura del marito che c’è, ma è come se non ci fosse, per esempio. È un testo fantastico perché ha molte chiavi di lettura ».
Winnie però non perde la fiducia, guarda verso il cielo, ponendo ogni sua speranza in quella 'grazia divina' che così facilmente consola.
Questo dunque lo spettacolo che apre la rassegna Home, promossa dal Dicastero Giovani ed Eventi, che da anni collabora attivamente con le compagnie della Svizzera italiana e che ne vuole mettere in evidenza, per questa stagione 2011/2012, le nuove creazioni. Le 12 compagnie teatrali sono state fotografate da Jacek Pulawski, acuto esecutore di ritratti per il lancio della rassegna, lancio che è stato curato graficamente da Damiano Merzari.
Home, perché il palcoscenico dello studio Foce è quello di casa, per radicare il nesso evidente che lo spazio ha con il territorio e mostrare la valida presenza creativa di chi, in Ticino, si esprime con qualità attraverso il teatro e la musica. Per non ritrovarci, come la Winnie di Beckett, a dire: «Eh, sì, così poco da dire, così poco da fare, e una tale paura, certi giorni, di trovarsi… con delle ore davanti a sé, prima del campanello del sonno, e più niente da dire, più niente da fare, che i giorni passano, certi giorni passano, passano e vanno, senza che si sia detto niente, o quasi, senza che si sia fatto niente, o quasi».

martedì 9 agosto 2011

genio e follia hanno qualcosa in comune: entrambi vivono in un mondo diverso da quello che esiste per gli altri.

(parte seconda)

Terri è un adolescente che si occupa molto di uno zio malato di alzheimer e poco di sé stesso. Lo penso e sorrido e avrei voglia di abbracciare quel goffo ragazzotto che va a scuola in pigiama - perché è più comodo - che non si arrabbia mai se non quando lo si ferisce nei sentimenti, escluso e cosciente della sua diversità in maniera così matura che fa al contempo 'poco cinema' e 'così cinema'.
 
La pellicola in concorso è, per l'appunto, Terri, del neworkese Azael Jacobs (timido e impacciato di fronte alla sala quanto il protagonista del suo film).

Il regista, che con umanità e compassione ci porta in questo Bildungsroman californiano, ha già fatto parlare di sé: allo Slamdance Festival - Kirk and Kerry (1997), Miglior cortometraggio drammatico - e al Sundance - Momma's Man (2008, in co-direzione con Gerardo Naranjo), selezionato al Film Festival.
 

Il film in concorso internazionale, ispirato ad una novella di Patrick deWit, è riuscito e toccante per la bravura del regista, che muove con estrema serietà e verità i personaggi di un liceo di provincia in maniera naturale, mai patetica, e poco scontata. Sorniona ironia sta attaccata al protagonista - Jacob Wysocki - quasi infilata in un taschino del suo pigiamone a strisce (sempre pulito, diverso ogni giorno).


Terri è cosciente di essere un outsider nel suo liceo, per questo si stupisce quando il direttore Mr. Fitgerald (John C. Reilly) conosce addirittura il suo nome. Quanto muove il direttore è un impeto quasi umanitario di aiuto verso i ragazzini in difficoltà.

Non aspettatevi però un bigotto e stereotipato capo-scout, anzi! Mr. Fitzgerald, ex-diverso pure lui, è pieno di tutti gli umani difetti, fa errori, dice bugie e chiede gli occhi su piccole ingiustizie perché, in fondo, noi tutti cerchiamo sempre di fare il nostro meglio, anche se spesso non ci riusciamo e facciamo errori.

Il protagonista farà la conoscenza, in occasione delle sedute settimanali homemade presso il direttore-psicologo, con il ribellissimo insicuro Chad (Bridger Zadina) e con la bella del liceo, la bionda, sexy e a rischio di esplusione Heather (Olivia Crocicchia), e grazie a loro inizierà a esplorare un nuovo mondo.

Questo amo del cinema: quando esci dalla sala di proiezione ri-entri nella vita. Ma senza che ne sia immediatamente consapevole, un pezzettino di film ti si è appiccicato addosso e te lo porti appresso per un po'. Poi lo ritrovi e ti piace tornare lì, in quello spazio privato fatto di storie e immagini.
E ne vuoi ancora.

lunedì 8 agosto 2011

genio e follia hanno qualcosa in comune: entrambi vivono in un mondo diverso da quello che esiste per gli altri.

(Parte prima)

Echi di Schopenhauer a Locarno, sotto un incessante pioggia che non dà tregua a nessuno, nemmeno alle più irriducibili mantelline pardate.

In un festival che soddisfa per la sua diversità e qualità (dopo un anno di assenza, lo ritrovo riverniciato di fresco dalla sapiente mano artistica di Olivier Père), il piacere sta a volte nel perdersi tra pellicole di vario genere, metraggio, epoca, caratura e provenienza e ritrovare quasi per incanto un denominatore comune. In questo caso, il sostrato  - Sostanza delle cose - è la diversità.

Ora, sono consapevole della difficoltà di cadere in luoghi comuni piuttosto scontati quando si affronta il tema. È difficile scriverne - per questo  mi faccio subdolamente prestare il titolo da filosofi tedeschi - ma lo devo per lo meno alle quattro visioni cinematografiche avute tra sabato e domenica. Trattasi per inciso del cortometraggio sudcoreano Chupachups nella sezione Pardi di domani - Concorso internazionale, del film in Concorso Terri di Azael Jacobs, di Tea and Sympathy - Restrospettiva Vincente Minnelli, e del documentario svizzero The Substance - Albert Hofmann's LSD, Cineasti del presente.


Nel cortometraggio di Ji-suk Kyung si esplora il mondo dell'amore impossibile tra due ex-compagne di scuola, che con fatica riescono ad ammettere persino a loro stesse i profondi sentimenti che le legano, alla fine rivelati attraverso un universo comunicativo più accessibile, una caramella. Sguardi sfiorati, statico silenzio e parole cadenzate si giostrano in sedici minuti di intensità. Così si è aperto il ballo della diversità in un sabato pomeriggio festivaliero.


Ho continuato a ballare tra una sala e l'altra la domenica, in mezzo a tutta la fiumana di gente che come me ha approfittato del week end per vedere il maggior numero di pellicole possibili. Il programma era stato studiato alla perfezione. Di primo mattino, un po' osé per una matinée domenicale, il documentario di Martin Witz che ripercorre la storia del dietilamide-25 dell'acido lisergico, in gergo Lsd, dalla sua scoperta casuale nel 1943 (per opera del chimico svizzero Albert Hofmann) sino ai giorni nostri.

Usi, costumi, colori e visioni di una sostanza che ha aperto il mondo delle percezioni: impiegata inizialmente come farmaco in psichiatria e poi uscita nelle strade a bordo di un vecchio scuolabus colorato, la sostanza è dilagata in brevissimo tempo attraverso tutta una generazione. Hoffman la creò, Thimoty Leary, psicologo statunitense, la propagandò ai giovani di tutto il paese, passando da eccentrico professore che regalava viaggi stupefacenti a nemico pubblico numero uno della nazione. Così si estrapolava dai i suoi discorsi di fronte sempre più vaste schiere di giovani negli anni sessanta: l'LSD è per le persone ai margini, i diversi, coloro che non vivono all'ombra del materialismo, dei doveri e delle leggi. Un documentario ben fatto, oggettivo e toccante, soprattutto nelle interviste al chimico svizzero, che cerca di star lontano da giudizi e cliché, molte volte riuscendoci con grande maestria. Immagini d'archivio e colloqui con ex sessantottini, psichiatri e chi grazie all'LSD, sta cercando di liberare l'anima da un corpo malato. Da vedere.

(...)

sabato 6 agosto 2011

we will drink and eat cinema with the same pleasure and simplicity that we taste coffee and cookies today. (Alina Grigore)

Prendo in prestito questa frase all'attrice del film rumeno di Adrian Sitaru, Concorso Internazionale, Din dragoste cu cele mai bune intentii (Best intentions) perché leggendola stamane su Pardo Live davanti al mio caffé ho provato esattamente lo stesso sentimento. Anche oggi come ieri avrò l'occasione di passare da una proiezione all'altra, con la stessa semplicità (e piacere) con cui questa mattina son passata dalla prima alla seconda (e terza e quarta) tazza di caffé. 
È un festival di cinema, certo, ma l'offerta e l'accesso sono tanto a portata di mano che persino un parigino doc, di quelli che il mondo si divide tra Paris e pas-Paris, arrivato qui a trovarmi non senza divertita ironia e accondiscendenza illuminanti il volto (au fond, ici c'est la province...), è rimasto senza parole (finalemet, c'est trop cool ici).

Locarno è sotto la pioggia grigia e mezza vuota, ma lo vedi che, dietro le case, dietro le auto, nascosto tra piazza e bistrot, sta tutto un brulicare di addetti ai lavori in polo nera e gialla che sudano e lavorano e corrono e sorridono e guardano il cielo disperati, rendendo tutto efficiente e geniale. 
Locarno è come una dama di gran classe, che non ha bisogno di darsi arie perché lo stile imbattibile e la caratura non necessitano d'esser sotttolineate. 
Locarno stupisce ogni volta, e quest'anno, senza badge press al collo, senza inviti e senza catalogo, mi stupisce ancra di più perché la vivo da comune mortale, scesa dall'olimpo della stampa scritta.

Questo per me significa poter vedere finalmente un Concorso Internazionale e magari anche le proiezioni alle sei, ma significa al contempo immettersi in intreminabili code di fronte al Fevi, mangiare un panino tra un film e l'altro, e una pizza da un cartone sgocciolante d'olio aspettando sotto la pioggia Louis Garrel.

Significa però osservare e godere del festival, per una volta, senza dover pedalare di volata da un posto all'altro con microfono e timore alla mano. Signifa essere libera di vedere tre film che mi hanno emozionata, stupita, rattristata, divertita, impaurita, impensierita e risollevata al contempo. Quello che ci si aspetta dal mondo del cinema insomma.



Un amour de jeunesse, con candore e verità disarmanti, ci riporta indietro, al nostro primo, tormentato, trascinato e stravissuto primo amore. A quella totalità tetanizzante, sconvolgente e travolgente di cui tutti, una volta nella vita, ci siam sentiti felici d'esser prigionieri. La tematica è portata all'estremo nel film di Mia Hansen-Løve (forse un po' trascinato e lungo sul finale, come i migliori struggenti amori giovanili), già autrice di Tous est pardonné (2007) e Il padre dei miei figli (2009), con i quali Un amour de jeunesse forma una perfetta trilogia, secondo le parole di Olivier Père. Un film ben imbevuto di francesissima post nouvelle vague, con bravi attori giovani e belli, vestiti bene e nonostante lo spleen più volte sottolineato (condizione d'obbligo), così veri e fieri nella loro città. Si cresce e non si cresce, passano gli anni ma certe dinamiche restano, e allora, solo un fiume potrà trascinare lontano da noi un cappello di paglia che porta con se una passione tanto potente da non poter esser vissuta, né prima né dopo, ma della quel non si vuol fare a meno.
 

Sempre giovane, sempre bella, di quella bellezza un po' disarmante,  è l'attrice Brit Marling in Another Earth, primo lungometraggio di Mike Cahill, già co-realizzatore di vari documentari presentati al Sundance. Il film è intenso e bello, inverosimile e improbabile come lo vogliono i dettami della science-fiction, soprattutto se statunitense, ma originale nel presentare un tema a dir poco fondamentale: la scoperta dell'altro e di noi stessi attraverso uno specchio nell'universo. Con pochi mezzi e senza la pretesa di effetti speciali (ci si accontenta della stupenda visione di Terra 2 stagliata nel cielo orizzontale di New Haven), ma con una fotografia e un montaggio particolarmente riusciti, il film piace e fa riflettere alle domande che tutti, in una notte d'insonnia, lungo un viaggio in treno o in coda alla cassa del supermercato ci siam posti almeno una volta nella vita... e se...? 

E tutto il resto è finzione. 

giovedì 4 agosto 2011

e il ciel si dipinse di gialloneri puntini

Tra poco si inizia, e i miei polpastrelli si stanno via via dotando di vita propria, causa agitazione. Ansia da prestazione. Chissà. Ho voglia di far vivere Ambroisie proprio al Festival del Film di Locarno e di scoprire se potrà sopravvivere. Lì, dove in realtà per la prima volta ho iniziato a far la giornalista. Un velo di timore per quanto andrò a dire, per l'ardore e l'ardire, c'è. Ma il desiderio di scrivere è così forte che vince.

E con lui...

le pellicole e la gente e il pofumo di bagnato, e i suoni e le sedie e i ciottoli e la biciletta nera senza freni e il panino al roastbeef e salsa tartara che non c'è più, e la posta e la pioggia, e le stelle e le stalle, lacrime di riso e goccie ambrate di birra in bicchieri biodegradabili. Gli all access e le file interminabili, e la pizza al volo per non perdere il posto e la redazione sempre così lontana.
 
Le star, e dei film le trame, i registi e le loro interviste da grand hotel. Abel Ferrara, Vincente Minnelli, Luis Garrell, Isabelle Huppert, l'Italia fuori concorso di Guadagnino e l'India finalmente non boollywoodiana. Corti d'artisti, corti d'autore, internazionali e nazionali, come la Svizzera, l'LSD e il Red Carpet di una delle piazze più belle al mondo.


E un cielo, che al posto delle stelle si veste per dieci giorni di macchioline gialle e nere.

giovedì 28 luglio 2011

Siamo a cavallo...

...dell'estate! Anche se mi concederete spero una sincera sbuffatina per questo poco clemente clima degno di tisane e scalferotti. Ma in questa settimana di stallo ci troviamo esattamente in mezzo, tra un festival e l'Altro (la maiuscola per anzianità e notorietà ci sta tutta!). Tra gli svariati (e svarioni) stimoli offerti dal LongLakeFestival di Lugano e le Festival, la sessantaquattresima edizione del Festival del film di Locarno.

Da buona cinefila sono in fervente attesa per l'inizio delle danze tra metri di cellulosa arrovellata, stelle cadenti e tramezzini volanti, e ho lo sguardo colmo di aspettative proteso verso Locarno, come un bambino che attende di varcare il cancello terminata la scuola.

Ma ante-tempo, prima che si accendano gli schermi e vengano riversate parole su film, attori, cortometraggi, giurie e pubblico, mi sento di spezzare una lancia in favore del neo-nato LongLakeFestival.

Appendice introduttiva a estivaLugano, si è imposto con i suoi 171 eventi d'alta qualità (tutti gratuiti, anche per i brontonoli radini quindi!) e assolutamente originali, facendoci sentire per la prima volta un pochino vicini alle grandi capitali europee... Mi concederete la sviolinata, ma passeggiando in una serata di luglio per il parco Ciani tra chaise longue verde acido e bancarelle di libri usati, quando ad ogni 100 metri la musica che senti in lontananza lascia spazio a nuove note e le voci variano, si modulano e cambiano su ritmi diversi, c'era da esser fieri della nostra città. Che ha riportato in piazza la gente, e l'ha intrattenuta, divertita, conquistata.

41 giorni ininterrotti di cultura suddivisi in sei sezioni tematiche (anche se purtroppo grazie al vocabolario anglosassone perdono un po' della loro originalità): Art, International, Jazz, Street, Wawes e World.

L'Internazionalità l'abbiamo vissuta soprattutto in piazza Manzoni con i concerti dei Sud Sound System e Yael Naim per buttar lì due nomi, oltre alle svariate proposte di musica classica (Alexandre Markov, Christine Walevska, Carlo Grante, Wieland Kuijken). L'Art aveva un non so che delle nuits blanches ou des musées parisiennes dove con Open gallery si visitavano di sera le gallerie luganesi, ma dove ci si perdeva tra le macchine di Leonardo da Vinci al Macello (tornano a rivivere degnamente i luoghi). Per non parlare dell'esposizione a Villa Ciani su Wim Wenders (foto), e i fumetti di Hugo Pratt. La Street è stata soprattutto quella del Busker Festival, alla sua quarta edizione, un festival di strada di quelli seri, con mimi, marionette, concertini di nicchia e danze. E poi ancora il Jazz dell'Estival, le Wawes policulturali e multiages che dall'atelier per bambini passavano al cinema muto in piazza. Ma non dimentichiamo le nostre Parole (questa da buona insegnante di italiano mi rifiuto di scriverla in inglese!), con recital e incontri di scrittori nella cornice fiabesca e début de siècle del Parco Ciani, a due passi dalla biblioteca cantonale e dall'imponente e antico Liceo.

Un applauso meritato e appagato, con tanto di pacchetta sulle spalle e bravo al Dicastero Giovani e Eventi quindi, che per un estate, mentre il cielo sopra noi impazzivan, ha reso per lo meno la terra attrattiva.

sito del LongLakeFestival


E... aspettando Locarno... il sito pardato


mercoledì 27 luglio 2011

Nasce una voce

Questo blog nasce da un desiderio ben preciso, scrivere articoli di cultura e spettacolo da un luogo in cui spesso, a torto, si crede non ci sia nulla da fare, vedere, ascoltare. Vorrei sfatare il mito. Scrivo quindi per raccontare quanto accade, è accaduto o accadrà alle nostre latitudini, e... sì, lo ammetto, anche per essere quella giornalista culturale che ho sempre sognato di essere.

Spesso però le creazioni nascono oltre che da una necessità, anche a seguito di un eventi particolari che fan scaturire in noi la voglia di comunicare.

Nel mio caso, il concerto di Yael Naim, tenutosi ieri sera 25 luglio in Piazza Manzoni, a Lugano. Un concerto poetico, vibrante di energia che la cantautrice israelo-parigina (concedetemi il termine, che le calza a pennello) ha spontaneamente regalato al pubblico, un concerto vero e bello.


Tutto perfetto se non fosse che la piazza era mezza vuota, mezza sorda e mezza muta.

Mi permetto di attribuire parte della colpa ai media, che non hanno saputo coprire l'evento con l'importanza che l'artista, riconosciuta internazionalemnte, meritava; ai responsabili della programmazione di Longlakefestival, che hanno infelicemente posto l'evento di lunedì sera; e infine sì, alla pigrizia dei luganesi, ammettendo timidamente che a tale inezia stavo cedendo anche io, pur conoscendo bene Yael Naim (e non solo grazie a New Soul nella pubblicità della Apple).


Ora, per non tediare i miei lettori sin dal primo giorno di nascita, non starò a dilungarmi troppo. Questo era un esempio. Questo era per dirvi che il mio sogno sarebbe quello di riempire le piazze dando loro voci e orecchie intenditrici, ma possedendo ancora un briciolo di umiltà e realismo, mi accontenterò di raccontar storie di chi, come, dove e quando ci può fare volare in alto come ha fatto ieri sera Yael.