martedì 9 agosto 2011

genio e follia hanno qualcosa in comune: entrambi vivono in un mondo diverso da quello che esiste per gli altri.

(parte seconda)

Terri è un adolescente che si occupa molto di uno zio malato di alzheimer e poco di sé stesso. Lo penso e sorrido e avrei voglia di abbracciare quel goffo ragazzotto che va a scuola in pigiama - perché è più comodo - che non si arrabbia mai se non quando lo si ferisce nei sentimenti, escluso e cosciente della sua diversità in maniera così matura che fa al contempo 'poco cinema' e 'così cinema'.
 
La pellicola in concorso è, per l'appunto, Terri, del neworkese Azael Jacobs (timido e impacciato di fronte alla sala quanto il protagonista del suo film).

Il regista, che con umanità e compassione ci porta in questo Bildungsroman californiano, ha già fatto parlare di sé: allo Slamdance Festival - Kirk and Kerry (1997), Miglior cortometraggio drammatico - e al Sundance - Momma's Man (2008, in co-direzione con Gerardo Naranjo), selezionato al Film Festival.
 

Il film in concorso internazionale, ispirato ad una novella di Patrick deWit, è riuscito e toccante per la bravura del regista, che muove con estrema serietà e verità i personaggi di un liceo di provincia in maniera naturale, mai patetica, e poco scontata. Sorniona ironia sta attaccata al protagonista - Jacob Wysocki - quasi infilata in un taschino del suo pigiamone a strisce (sempre pulito, diverso ogni giorno).


Terri è cosciente di essere un outsider nel suo liceo, per questo si stupisce quando il direttore Mr. Fitgerald (John C. Reilly) conosce addirittura il suo nome. Quanto muove il direttore è un impeto quasi umanitario di aiuto verso i ragazzini in difficoltà.

Non aspettatevi però un bigotto e stereotipato capo-scout, anzi! Mr. Fitzgerald, ex-diverso pure lui, è pieno di tutti gli umani difetti, fa errori, dice bugie e chiede gli occhi su piccole ingiustizie perché, in fondo, noi tutti cerchiamo sempre di fare il nostro meglio, anche se spesso non ci riusciamo e facciamo errori.

Il protagonista farà la conoscenza, in occasione delle sedute settimanali homemade presso il direttore-psicologo, con il ribellissimo insicuro Chad (Bridger Zadina) e con la bella del liceo, la bionda, sexy e a rischio di esplusione Heather (Olivia Crocicchia), e grazie a loro inizierà a esplorare un nuovo mondo.

Questo amo del cinema: quando esci dalla sala di proiezione ri-entri nella vita. Ma senza che ne sia immediatamente consapevole, un pezzettino di film ti si è appiccicato addosso e te lo porti appresso per un po'. Poi lo ritrovi e ti piace tornare lì, in quello spazio privato fatto di storie e immagini.
E ne vuoi ancora.

lunedì 8 agosto 2011

genio e follia hanno qualcosa in comune: entrambi vivono in un mondo diverso da quello che esiste per gli altri.

(Parte prima)

Echi di Schopenhauer a Locarno, sotto un incessante pioggia che non dà tregua a nessuno, nemmeno alle più irriducibili mantelline pardate.

In un festival che soddisfa per la sua diversità e qualità (dopo un anno di assenza, lo ritrovo riverniciato di fresco dalla sapiente mano artistica di Olivier Père), il piacere sta a volte nel perdersi tra pellicole di vario genere, metraggio, epoca, caratura e provenienza e ritrovare quasi per incanto un denominatore comune. In questo caso, il sostrato  - Sostanza delle cose - è la diversità.

Ora, sono consapevole della difficoltà di cadere in luoghi comuni piuttosto scontati quando si affronta il tema. È difficile scriverne - per questo  mi faccio subdolamente prestare il titolo da filosofi tedeschi - ma lo devo per lo meno alle quattro visioni cinematografiche avute tra sabato e domenica. Trattasi per inciso del cortometraggio sudcoreano Chupachups nella sezione Pardi di domani - Concorso internazionale, del film in Concorso Terri di Azael Jacobs, di Tea and Sympathy - Restrospettiva Vincente Minnelli, e del documentario svizzero The Substance - Albert Hofmann's LSD, Cineasti del presente.


Nel cortometraggio di Ji-suk Kyung si esplora il mondo dell'amore impossibile tra due ex-compagne di scuola, che con fatica riescono ad ammettere persino a loro stesse i profondi sentimenti che le legano, alla fine rivelati attraverso un universo comunicativo più accessibile, una caramella. Sguardi sfiorati, statico silenzio e parole cadenzate si giostrano in sedici minuti di intensità. Così si è aperto il ballo della diversità in un sabato pomeriggio festivaliero.


Ho continuato a ballare tra una sala e l'altra la domenica, in mezzo a tutta la fiumana di gente che come me ha approfittato del week end per vedere il maggior numero di pellicole possibili. Il programma era stato studiato alla perfezione. Di primo mattino, un po' osé per una matinée domenicale, il documentario di Martin Witz che ripercorre la storia del dietilamide-25 dell'acido lisergico, in gergo Lsd, dalla sua scoperta casuale nel 1943 (per opera del chimico svizzero Albert Hofmann) sino ai giorni nostri.

Usi, costumi, colori e visioni di una sostanza che ha aperto il mondo delle percezioni: impiegata inizialmente come farmaco in psichiatria e poi uscita nelle strade a bordo di un vecchio scuolabus colorato, la sostanza è dilagata in brevissimo tempo attraverso tutta una generazione. Hoffman la creò, Thimoty Leary, psicologo statunitense, la propagandò ai giovani di tutto il paese, passando da eccentrico professore che regalava viaggi stupefacenti a nemico pubblico numero uno della nazione. Così si estrapolava dai i suoi discorsi di fronte sempre più vaste schiere di giovani negli anni sessanta: l'LSD è per le persone ai margini, i diversi, coloro che non vivono all'ombra del materialismo, dei doveri e delle leggi. Un documentario ben fatto, oggettivo e toccante, soprattutto nelle interviste al chimico svizzero, che cerca di star lontano da giudizi e cliché, molte volte riuscendoci con grande maestria. Immagini d'archivio e colloqui con ex sessantottini, psichiatri e chi grazie all'LSD, sta cercando di liberare l'anima da un corpo malato. Da vedere.

(...)

sabato 6 agosto 2011

we will drink and eat cinema with the same pleasure and simplicity that we taste coffee and cookies today. (Alina Grigore)

Prendo in prestito questa frase all'attrice del film rumeno di Adrian Sitaru, Concorso Internazionale, Din dragoste cu cele mai bune intentii (Best intentions) perché leggendola stamane su Pardo Live davanti al mio caffé ho provato esattamente lo stesso sentimento. Anche oggi come ieri avrò l'occasione di passare da una proiezione all'altra, con la stessa semplicità (e piacere) con cui questa mattina son passata dalla prima alla seconda (e terza e quarta) tazza di caffé. 
È un festival di cinema, certo, ma l'offerta e l'accesso sono tanto a portata di mano che persino un parigino doc, di quelli che il mondo si divide tra Paris e pas-Paris, arrivato qui a trovarmi non senza divertita ironia e accondiscendenza illuminanti il volto (au fond, ici c'est la province...), è rimasto senza parole (finalemet, c'est trop cool ici).

Locarno è sotto la pioggia grigia e mezza vuota, ma lo vedi che, dietro le case, dietro le auto, nascosto tra piazza e bistrot, sta tutto un brulicare di addetti ai lavori in polo nera e gialla che sudano e lavorano e corrono e sorridono e guardano il cielo disperati, rendendo tutto efficiente e geniale. 
Locarno è come una dama di gran classe, che non ha bisogno di darsi arie perché lo stile imbattibile e la caratura non necessitano d'esser sotttolineate. 
Locarno stupisce ogni volta, e quest'anno, senza badge press al collo, senza inviti e senza catalogo, mi stupisce ancra di più perché la vivo da comune mortale, scesa dall'olimpo della stampa scritta.

Questo per me significa poter vedere finalmente un Concorso Internazionale e magari anche le proiezioni alle sei, ma significa al contempo immettersi in intreminabili code di fronte al Fevi, mangiare un panino tra un film e l'altro, e una pizza da un cartone sgocciolante d'olio aspettando sotto la pioggia Louis Garrel.

Significa però osservare e godere del festival, per una volta, senza dover pedalare di volata da un posto all'altro con microfono e timore alla mano. Signifa essere libera di vedere tre film che mi hanno emozionata, stupita, rattristata, divertita, impaurita, impensierita e risollevata al contempo. Quello che ci si aspetta dal mondo del cinema insomma.



Un amour de jeunesse, con candore e verità disarmanti, ci riporta indietro, al nostro primo, tormentato, trascinato e stravissuto primo amore. A quella totalità tetanizzante, sconvolgente e travolgente di cui tutti, una volta nella vita, ci siam sentiti felici d'esser prigionieri. La tematica è portata all'estremo nel film di Mia Hansen-Løve (forse un po' trascinato e lungo sul finale, come i migliori struggenti amori giovanili), già autrice di Tous est pardonné (2007) e Il padre dei miei figli (2009), con i quali Un amour de jeunesse forma una perfetta trilogia, secondo le parole di Olivier Père. Un film ben imbevuto di francesissima post nouvelle vague, con bravi attori giovani e belli, vestiti bene e nonostante lo spleen più volte sottolineato (condizione d'obbligo), così veri e fieri nella loro città. Si cresce e non si cresce, passano gli anni ma certe dinamiche restano, e allora, solo un fiume potrà trascinare lontano da noi un cappello di paglia che porta con se una passione tanto potente da non poter esser vissuta, né prima né dopo, ma della quel non si vuol fare a meno.
 

Sempre giovane, sempre bella, di quella bellezza un po' disarmante,  è l'attrice Brit Marling in Another Earth, primo lungometraggio di Mike Cahill, già co-realizzatore di vari documentari presentati al Sundance. Il film è intenso e bello, inverosimile e improbabile come lo vogliono i dettami della science-fiction, soprattutto se statunitense, ma originale nel presentare un tema a dir poco fondamentale: la scoperta dell'altro e di noi stessi attraverso uno specchio nell'universo. Con pochi mezzi e senza la pretesa di effetti speciali (ci si accontenta della stupenda visione di Terra 2 stagliata nel cielo orizzontale di New Haven), ma con una fotografia e un montaggio particolarmente riusciti, il film piace e fa riflettere alle domande che tutti, in una notte d'insonnia, lungo un viaggio in treno o in coda alla cassa del supermercato ci siam posti almeno una volta nella vita... e se...? 

E tutto il resto è finzione. 

giovedì 4 agosto 2011

e il ciel si dipinse di gialloneri puntini

Tra poco si inizia, e i miei polpastrelli si stanno via via dotando di vita propria, causa agitazione. Ansia da prestazione. Chissà. Ho voglia di far vivere Ambroisie proprio al Festival del Film di Locarno e di scoprire se potrà sopravvivere. Lì, dove in realtà per la prima volta ho iniziato a far la giornalista. Un velo di timore per quanto andrò a dire, per l'ardore e l'ardire, c'è. Ma il desiderio di scrivere è così forte che vince.

E con lui...

le pellicole e la gente e il pofumo di bagnato, e i suoni e le sedie e i ciottoli e la biciletta nera senza freni e il panino al roastbeef e salsa tartara che non c'è più, e la posta e la pioggia, e le stelle e le stalle, lacrime di riso e goccie ambrate di birra in bicchieri biodegradabili. Gli all access e le file interminabili, e la pizza al volo per non perdere il posto e la redazione sempre così lontana.
 
Le star, e dei film le trame, i registi e le loro interviste da grand hotel. Abel Ferrara, Vincente Minnelli, Luis Garrell, Isabelle Huppert, l'Italia fuori concorso di Guadagnino e l'India finalmente non boollywoodiana. Corti d'artisti, corti d'autore, internazionali e nazionali, come la Svizzera, l'LSD e il Red Carpet di una delle piazze più belle al mondo.


E un cielo, che al posto delle stelle si veste per dieci giorni di macchioline gialle e nere.