sabato 31 marzo 2012

il cinema d'autore nel web - ogni giovedì

da 'La Regione' del 31.3.2011


«Andiamo. Sì Andiamo. (Non si muovono)» . L’attualità del celebre finale di Beckett quando si parla di giovani che non hanno il coraggio, di partire, di andare, restando imprigionati in una statica atmosfera di indecisione e paura. È con questa citazione che si apre la ‘webseries’ Bymyside (online da giovedì 29 marzo il primo episodio su Youtube) che, con un linguaggio innovativo e di qualità, ci racconta la storia di tre trentenni che devono fare i conti con la sparizione del cantante del loro gruppo rock.


Passano le nottate appoggiati all’entrata di un grande supermercato di periferia, tra birre, skate, recriminazioni e domande. Lo sguardo della camera è fisso sulle vite di questi tre amici, senza retorica, senza presa di parte, senza mutamenti, come le luci.
Saranno loro, Teo (Pier Luigi Pasino), Bozo (Jacopo Bicocchi) e Sparo (Matteo Alfonso, che in Ticino ha iniziato a collaborare con Cambusa Teatro di Locarno), che a poco a poco faranno emergere la loro voglia di riscatto, o rispettivamente il vuoto dal quale si sentono invasi, svelando anche il mistero legato alla scomparsa di Flippo.


Il film è stato prodotto, diretto e co-sceneggiato da Flavio Parenti (nel ruolo di Flippo), attore italiano emergente che vedremo prossimamente sul grande schermo nel nuovo film di Woody Allen, To Rome with love . Abbiamo intervistato il regista di Bymyside incuriositi dal fenomeno di questa ‘webseries’ che, in un mese dal suo annuncio sulla rete attraverso i social network e il sito ufficiale, conta già migliaia di fan. Questo grazie anche alla comunicazione creata attorno all'evento, volta a alimentare continuamente l’aspettativa per un prodotto di qualità (dagli attori al montaggio) distribuito in maniera assolutamente non elitaria.

Come nasce questo progetto?
«Nasce da una realtà che ha vissuto l’autore, Pier Luigi Pasino. Ha radicato in sé quella sensazione e ha poi scritto il testo, inizialmente per il teatro. C’era una bella necessità, voglia di raccontare quella staticità. Insieme abbiamo co-sceneggiato la stesura cinematografica».

Quello che colpisce è soprattutto l’atmosfera...
«Sì, si entra a poco a poco nell’umanità dei personaggi. Soprattutto si tenta di scavare a fondo i motivi per spiegare quello che è successo. È profondo. E questa profondità si fonde in uno strano connubio con un meccanismo di fruizione in pillole, veloce, superficiale».

È questo che piace del vostro progetto. La gente che fruisce dei prodotti veloci di Internet non per forza è alla ricerca di prodotti superficiali, anzi.
«Sono d’accordo. Siamo a un bivio. Il virale è quanto di più visto, tutti si sono spinti in una fruizione usa e getta, che funziona, ma quanto hai fatto non serve poi all’umanità. Siamo in un momento in cui possiamo ancora mostrare che si può fare anche dell’altro attraverso la rete. Se il nostro esperimento piace, si creerà forse un nuovo ramo di Internet, fatto di contenuti anziché viralità. Penso che sia fondamentale per non trovarsi tra vent’anni unicamente con del marketing senza la narrazione, niente catarsi e solo vendita».

Questo è un anno particolarmente produttivo anche per la tua professione d’attore...
«Ciò che sto facendo adesso, Un matrimonio di Pupi Avati, è una delle esperienze più belle. Passo dall’essere ventenne a settantacinquenne, e attraverso tutte le fasi della vita.
Ma in fondo tutte le esperienze hanno qualcosa. Dipende anche da quanto tu sia aperto in quel momento e predisposto ad accettarle. Lavorare con Tilda Swinton ( Io sono l’amore di Luca Guadagnino) piuttosto che con Murray Abraham e Peter Greenway ( Goltzius and the Pelican Company ) o Woody Allen, sono tutte esperienze strepitose».

E com’è stato lavorare con questi due grandi registi?
«Greenway è molto gentile. Lo incontri alle otto di mattina, alle tre di notte o a mezzogiorno ed è sempre uguale. Una specie di costante, la stessa energia. Ma quando lavori sei in un caos creativo impressionante. Lavorare con Woody Allen è meraviglioso, non è solo un grande regista, ma un inventore, un autore strepitoso. Recitare con lui, avere degli scambi di battute, è stato incredibile».
E per tornare al mondo che Flavio Parenti ha creato attraverso Bymyside , la voglia di andare e la paura di restare sono on line. Un cinema d’autore in tredici episodi che racconta lo smarrimento e l’anima rock della nostra generazione. «Te ne vuoi andare? Dove? Non lo so, dove mi fanno fare quel che ho voglia di fare. E che cosa hai voglia di fare? Qualcosa che mi fa star bene».

venerdì 16 marzo 2012

Teatro: artigianato e umiltà - Teatro d'Emergenza

Che il teatro sia anche artigianato, e quindi sapiente utilizzo del proprio corpo per far vivere i personaggi ed emozionare il pubblico, è un concetto che oggi spesso viene dimenticato. Ma l’idea di un teatro riportato a sé aveva già rivoluzionato gli inizi del Novecento. Gli attori iniziavano allora a essere considerati, dal celebre teorico Gordon Craig in poi, abili maestri dello strumento più importante che avevano, il corpo, dai cui gesti scaturiva la parola.
Questo si definiva artigianato teatrale: tornare ai propri, semplici, strumenti e reimparare a usarli. Nel panorama scenico odierno, purtroppo, sempre più raramente si incontrano attori che hanno l’umiltà di definirsi ancora artigiani del proprio mestiere. Tra questi pochi ci sono Luca Spadaro e Massimiliano Zampetti, 19 anni di lavoro in comune e in continua ricerca, e 23 spettacoli all’attivo come Teatro d’Emergenza.
« Max e io abbiamo sempre avuto una visione molto artigianale di questo mestiere – ci racconta il regista Luca Spadaro –, non so se ogni tanto abbiamo avuto la benedizione divina di fare arte. Noi partiamo facendo dell’artigianato, solido, ben fatto, con la cura del dettaglio. Se si trasforma in arte, bene, altrimenti sarà comunque stato utile ». Abbiamo incontrato la compagnia Teatro d’Emergenza, in scena da stasera al 18 marzo al Foce con Il custode di Pinter (foto), che ci ha fatto partecipe della propria personale visione della scena luganese; scena che per i due attori ha rappresentato agli esordi anche un percorso di formazione
« Abbiamo iniziato lavorando con Coco Leonardi – continua Spadaro –. Negli anni Novanta non c’era tutta quell’enfasi di apparire, andare a tutti i costi su un palco. O facevi l’accademia, o facevi esperienza, e quest’ultima te la guadagnavi. C’era l’umiltà di farla senza essere professionisti. Eravamo ragazzi che stavano provando in piccolo, e accanto avevamo la possibilità di lavorare per le compagnie luganesi, che all’epoca erano poche, ma soprattutto stupende con noi ragazzi. Il Teatro Pan, delle Radici e Sunil: ci offrivano gli spazi, i consigli, e la possibilità di fare i diversi lavori attorno al teatro (attrezzista, aiuto luci, aiuto fonico). Questa è stata parte della nostra formazione. Facendo i nostri esperimenti, tra di noi, e con l’aiuto delle persone di allora: Vania Luraschi, Daniele Finzi Pasca, Cristina Castrillo, che erano adorabili, generosi. Oggi la situazione è cambiata, ci sono più attori che spettatori, e un altro modo di approcciarsi a quest’arte ».
In che senso? «Oggi tutti vogliono salire sul palco, non importa come e con quale esperienza. Noi cerchiamo di far capire che per essere attori non basta fare un corso serale, bisogna lavorare! Si vuol provare a tutti i costi l’emozione di andare in scena. Ma l’emozione va data al pubblico, non a se stessi».
La differenza tra amatorialità e professionalità sta proprio in questo lavoro... «Una volta era molto marcata questa differenza. Noi abbiamo continuato a non definirci professionisti molto dopo aver iniziato a ricevere finanziamenti. Oggi si perdono anche la qualità e la richiesta del pubblico, che ormai si adatta a tutto. C’è dispersione, non si sa più giudicare buoni o meno gli spettacoli, a volte sembra che tutto qui sia meraviglioso. Ma io questa gran meraviglia non la vedo sempre».
La meraviglia di uno strumento artigianale, il corpo dell’attore, che se usato con cura e dovizia non smetterà mai di emozionare il proprio pubblico, forse più di declami e scintille.

Il custode
«In Pinter i personaggi potrebbero essere fotografie scattate la mattina in una qualunque città, appoggiate su un palcoscenico la sera e lasciate lì a deformarsi sotto la luce dei riflettori». Così anche i tre protagonisti della pièce ‘Il custode’, dramma del 1960 di Harold Pinter.
Max Zampetti, nel ruolo di Davis, ci racconta lo spettacolo, dove il vecchietto che rappresenta si affida alle cure di un uomo più giovane, Aston (recitato da Silvia Pietta, una donna, volta a creare lo straniamento voluto dal regista per la messa in scena), che lo salva da una rissa. Più tardi sopraggiungerà il violento fratello maggiore Mike (Mirko D’Urso), al quale nonostante le aggressioni Davis chiederà protezione.
«La sintesi dello spettacolo è che troppo spesso ci mettiamo nelle mani di persone violente, che riteniamo ci possano proteggere perché più forti, ma non forzatamente più generose. Pinter è lucidissimo nella scrittura, crea una drammaturgia dove tutti gli elementi sono presenti. Un drammaturgo attore, chiarissimo nella sua complessità. È un nostro autore guida, studiato da anni, ma mai messo in scena. Questo suo testo nasconde un forte discorso politico: ci svela come siamo, con aggraziata ironia».
 
 

giovedì 8 marzo 2012

L'attesa del teatro ticinese - e.s. teatro

 Il Cortile è uno di quegli spazi nati negli ultimi anni nel nostro cantone, creati da persone che sentono la necessità di portare avanti un proprio discorso artistico indipendente. Si tratta di luoghi solitamente ai margini della città, ai margini di una proposta artistica ufficiale, tra centralità e periferia, tra mondanità e arte popolare.
Questo piccolo teatro, creato a partire da un magazzino a Viganello nel 2006 da Emanuele Santoro, è uno spazio artistico dove e.s.Teatro prova e mette in scena i suoi spettacoli, ha una scuola per ‘microattori’ e ospita rassegne locali. Abbiamo incontrato il fondatore di e.s.Teatro, proprio al Cortile, per conoscere meglio lui, il suo lavoro e la sua ultima produzione, Aspettando Godot , in scena da domani (venerdì) all’11 marzo al Foce di Lugano.

Chi è e.s.Teatro? «e.s. Teatro nasce nel 2003 come bisogno di cominciare a parlare una mia lingua, fare delle cose mie, tant’è vero che il nome della compagnia porta le mie iniziali! Ho debuttato con un adattamento del Caligola di Camus, e da lì ho proposto una produzione all’anno toccando parecchi classici. Questi parlano continuamente di noi, anche a distanza di secoli, e al contempo danno al regista la possibilità di proporre interpretazioni personali. Da qui nascono le varie riduzioni e adattamenti particolari, dal repertorio strettamente shakespeariano a Cervantes e poi Dostoevskij. Da qualche anno affronto il teatro dell’assurdo e quello contemporaneo, mettendo in scena autori italiani ancora poco rappresentati nel loro Paese, parlo di Edoardo Erba e Spiro Scimone».

Cosa vuol dire lavorare in un territorio come quello ticinese? «Noi viviamo in una terra strana, un crocevia, e la maggior parte delle compagnie alla fine se ne va. Inoltre, c’è poca sinergia, poca collaborazione. Stiamo parlando di un fazzoletto di terra, grande quanto un quartiere di Milano, che nonostante riunisca una quantità incredibile di proposte, queste non riescono a unire le forze. La realtà ticinese è variegata, si va dalla clownerie al teatro di narrazione, passando per il teatro di prosa e di parola, per approdare al teatro sperimentale. Questo potrebbe essere una forza, se visto in un contesto generale. Ma noi, che vi siamo dentro, ci sfioriamo e non ci tocchiamo mai».

Come valuta la qualità del teatro ticinese? «Vi sono lavori molto interessanti. Ma bisogna stare attenti ad avere sempre uno scambio, un confronto con l’esterno, altrimenti si rischia di autocompiacersi troppo facilmente. Qui infatti si fa presto a dare giudizi, e mi riferisco sia ai critici sia al pubblico. Questi giudizi, a volte dati senza cognizione di causa e necessaria competenza, possono decidere del destino di uno spettacolo, per questo non bisognerebbe fermarsi alla dimensione locale».

Spesso però la realtà locale viene adombrata dai cartelloni ufficiali...
«Esatto, salvo la felice eccezione del Dicastero Giovani Eventi ( Home, ndr ), è difficile avere una vetrina più ufficiale attraverso la quale farsi conoscere da un pubblico che esiste: le stagioni ufficiali sono seguite assiduamente. Se in quel contesto venissero inserite anche le realtà locali, queste prenderebbero più piede. Non dovrebbe trattarsi di occasioni eccezionali, dovrebbe essere una regola. Alla fine, ciò che conta è la curiosità, e sarebbe così bello poterla sollecitare nel pubblico locale».

Aspettando Godot
V: «Andiamocene». E: «Non si può». V: «Perché?». E: «Aspettiamo Godot». Due uomini ne attendono un terzo, che non arriva. ‘Aspettando Godot’ è un testo che, come tutta la produzione di Beckett, ha rivoluzionato il teatro a livello formale. Scritta come una commedia, modellata sui suoi meccanismi, in realtà mette in scena la tragedia umana. E: «Troviamo sempre qualcosa, vero, Didi, per darci l’impressione di esistere?».
Perché ha deciso di mettere in scena ‘Aspettando Godot’? «Perché è un sogno che ho nel cassetto da tempo, e con questa pièce sento il bisogno di raccontarmi. Non potrei prescindere dal contatto viscerale che ho con il testo per farlo, per me il teatro è questo. Mi sento vicino al messaggio, alla sostanza che c’è nell’opera».
Parla anche di lei quindi? «Sì, ma anche di noi, del punto in cui siamo oggi, di questa enorme confusione. Non c’è direzione, tutte sono aperte. Dobbiamo parlare per riempire i vuoti e ci inventiamo cosa dire. Questo aspettare qualcosa, qualcuno, è proprio dell’essere umano. Giorno per giorno ci coinvolgiamo in un sistema che a volte non ricordiamo più a cosa porta e se l’abbiamo scelto noi. E ciò che noi siamo convinti di aspettare: sappiamo cos’è? Lo vogliamo veramente? Siamo sicuri che non ci è già passato davanti? È un tema ampio, ognuno si può riconoscere».