mercoledì 11 luglio 2012

Avignone 2012: Benvenuti nel tempio della scena

da 'La Regione Ticino' dell'11 luglio 2012

Ben 1’161 spettacoli fino al 28 luglio annoverano il Festival d’Avignone tra i capoluoghi mondiali del teatro, dove albergano due anime con un programma ufficiale e uno ‘off’. Alla sua 66esima edizione, l’evento trasforma la provenzale città dei papi in pulsante località artistica dove nascono palcoscenici dalle cantine, le case si aprono per diventare bar o ristoranti. Numeroso il pubblico che risponde alla vasta offerta del cartellone con spettacoli di ogni genere. Nostra visita nella magica località francese.

Arrivando ad Avignone si percepisce immediatamente che la provenzale città dei papi è stata invasa e conquistata da quel teatro democratico difeso un tempo da Jean Vilar, fondatore del Festival d’Avignone nel 1947, oggi alla sua 66esima edizione. Capoluogo regionale del dipartimento Vaucluse, Avignone in occasione del festival diventa dal 7 al 28 luglio capoluogo artistico europeo.
Due anime albergano il teatro avignonese, e l’appellativo impietoso che portano non è che un indizio alla diffidenza e differenza che reciprocamente le contraddistingue: il festival In e quello Off. Facilmente riassumibili in Ufficiale e Non.

Il Festival Off

Basta citare il numero degli spettacoli che lo compongono per farsi un’idea della vastità del programma: 1161! Mura, portoni e lampioni sono tappezzati da locandine che raccontano questo festival ‘alternativo’, nato autonomamente negli anni sessanta su iniziativa di alcuni artisti avignonesi stufi di non essere invitati all’In di Vilar, e oggi più vivo che mai. Le pièce rappresentate gridano quest’anima sovversiva e popolare, dove ognuno porta la sua voce e il suo teatro: sui muri leggiamo a lettere cubitali che Godot est arrivé e che Juliette hait Romeo . Il teatro non è morto e non è per pochi! Lungo l’arteria principale (Rue de la République) che ci porta verso il centro della città fortificata – la Place de l’Horloge – e per tutti gli stretti vicoli, le compagnie si esibiscono in una parata degna di quei giullari che attiravano a corte gli spettatori. Gli attori, vestiti per la scena, ci richiamano alla propria corte, grazie anche a un volantinaggio inarrestabile e invincibile. Per districarsi nell’ardua scelta un programma è distribuito gratuitamente, e la scuola elementare Thiers si muta nel Village du Off dispensando ogni informazione.

Tutto sembra trasformarsi in questo mese estivo ad Avignone: nascono teatri dalle cantine, le case si aprono per diventare bar e ristoranti, gli abitanti si riscoprono imprenditori e tutto ruota attorno all’arte. La rue des Tenturiers è il centro pulsante di questa kermesse, tavolini in ferro battuto e vecchie sedie colorate, cucina etnica e du terroir , librerie gremite di volumi antichi e terrazze assolate ospitano il fiume di festivalieri che si incontrano e opinano sulla qualità di quanto appena visto.
Gli spettacoli sono di tutti i generi, e qualità e serietà non sono sempre all’altezza della quantità. Se infatti, per partecipare al Festival In bisogna godere di comprovata fama internazionale in ambito artistico, una compagnia può partecipare all’ Off piuttosto facilmente: basta avere i soldi per affittare una sala. Il prezzo da pagare è alto, ma la possibilità di essere visti dai direttori artistici delle sale parigine e rischiare di essere selezionati per la stagione successiva è impagabile.


Il Festival In


Vincent Baudriller e Hortense Archambault, direttori artistici, propongono quest’anno un programma particolarmente europeo con un occhio di riguardo per l’Inghilterra. Il teatro ritorna alla sacra importanza del testo, e lo vediamo già dalla prima proposta in scena nella Corte d’Onore del Palazzo dei papi in apertura alla 66esima edizione: l’adattamento alla scena de Il Maestro e Margherita , il celebre romanzo del russo Michail Bulgakov, montata per l’occasione dall’artista associato del Festival, l’inglese Simon McBurney.
Un capolavoro della letteratura che si fa capolavoro di scena, uno spettacolo che racconta magistralmente della compassione, della debolezza, del demonio e dell’amore, la poesia di Bulgakov diventa parola viva su un palco dalla scenografia eccezionale (il Palazzo dei papi), e noi voliamo su Mosca insieme a Margherita accompagnati dalle parole del Maestro .

All’In si possono vedere, tra gli altri: l’esposizione Rachel, Monique di Sophie Calle, Il Gabbiano (Chekov) di Arthur Nauzyciel, i pirandelliani Sei personaggi in cerca d’autore di Stéphane Braunschweig, Refuse the hour di William Kentridge, Nouveau Roman di Christophe Honoré, e The four seasons restaurant di Romeo Castellucci.

Un programma appetitoso e per palati fini, ordinato e ben presentato, che vive insieme alla vitalità del Festival Off, forse più disordinato, meno scontato e più arrabattato.
È ciò che conferisce lo charme a questa città dal duplice volto, dove sacro e profano si fondono a dimostrare che l’arte, ebbene sì, e per fortuna, è anche questo.

venerdì 11 maggio 2012

le anime noir di palermo - intervista con gian mauro costa

da 'La Regione' del 11.5.2012

L’intrigo si fa mediterraneo nella rassegna Tutti i colori del giallo , giunta con successo alla sua ottava edizione, svoltasi anche quest’anno nelle sale del cinema Lux a Massagno. Dalle coste campane di Napoli sino a Barcellona, passando per Palermo, per sfiorare nelle diverse sue sfumature il Sud, con i suoi colori, i suoi sapori, le sue storie da raccontare.

La serata di ieri è stata dedicata alla Sicilia, terra del giornalista e scrittore Gian Mauro Costa. Abbiamo avuto il privilegio di farci accompagnare dall’autore palermitano nella sua affascinante, e dalle molteplici sfaccettature, città, prima dell’incontro con il pubblico che lo ha visto protagonista insieme a un grande nome della letteratura noir siciliana, Santo Piazzese (già presente a Massagno nel 2005 e nel 2009).

Un viaggio nella letteratura e non solo, per scoprire che cosa si nasconde in una città e nelle anime di chi la vive. Gian Mauro Costa, autore di Yesterday (Sellerio, 2001) e Il libro di legno (Sellerio, 2010) ci ha innanzitutto spiegato quanto conti, per lui, la sua città:
« Palermo è la vera protagonista di ciò che scrivo. Non riuscirei a parlare di una città che non sia la mia, la conosco molto bene, ma continua comunque a riservarmi angoli da scoprire. Credo che la letteratura contemporanea, in particolare quella noir, sia un tipo di narrativa che permette di conoscere meglio le città. Lo scrittore deve raccontare i luoghi, le atmosfere, descriverli bene per dare spessore e credibilità ai personaggi. Nell’800 era la letteratura d’avventura che permetteva questa esplorazione meticolosa, oggi è quella noir ».

Una città è fatta anche di antri oscuri, di bassifondi, come può essere l’uomo. Esiste un paragone tra il viaggio nella città e il viaggio all’interno di sé?
«Sì al movimento spaziale corrisponde un movimento interiore, alla topografia corrisponde anche una descrizione dei luoghi interiori e dei luoghi dell’anima. Palermo è ricca di queste zone d’ombra sordide, e i personaggi rispecchiano questa situazione. Non ho mai fatto scelte manichee, tra il bene e il male, e preferisco che anche i personaggi si muovano in questi contorni grigi. Palermo è una città di grandissime sfumature, e al contempo della coesistenza di bene e male portati al massimo. Non ho la pretesa nei miei romanzi di affrontare le grandi persone, i grandi malesseri di Palermo. Preferisco arrivare alla percezione di queste problematiche, che fanno da sfondo, attraverso piccole storie e soprattutto piccoli personaggi».

In questa scoperta della città e del personaggio, si può azzardare un altro parallelismo, tra psicoanalisi e indagine investigativa gialla?
«Ho pensato anche io che fosse così. Nel mio primo romanzo, Yesterday, questo collegamento, questa familiarità tra indagine gialla e investigazione dell’anima è molto forte e presente. Ma la psicoanalisi si rivelerà un’arma spuntata per il personaggio che vi ricorre, al contrario dell’indagine criminale. Ed è forse quello che per certi aspetti penso oggi anche io di questa terapia che non fornisce soluzioni, come un giallo, ma accomodamenti».

Perché scrivere romanzi gialli?
«Ho iniziato ad amare molto la lettura gialla contemporanea proprio perché mi permette di viaggiare insieme ai personaggi. Mi piace il giallo meditativo, un po’ malinconico. Mi piacciono i blues delle città. Nonostante tutto ciò io non mi sento un giallista, non cerco la trama perfetta, gli incastri. A me interessa di più l’aspetto antropologico proprio del noir. Quell’andare dietro a cose che sembrano portare fuori dalla normalità».

È difficile parlare in un romanzo del crimine organizzato?
«Sì, molto. Il confronto con la mafia a Palermo è inevitabile, scontato, ma allo stesso tempo difficile. Penso che sia un po’ presuntuoso immaginare di poter comprendere in un libro un fenomeno così complesso come la mafia. C’è riuscito solo Sciascia, in qualche modo. Credo che, per fare comprendere meglio il fenomeno, invece di parlare di grandi avvenimenti, di stragi, sia meglio raccontare piccole storie, che sono indicative. La cosa più forte della mafia è il suo condizionamento sulla vita quotidiana, sulla vita spicciola. Quindi è da lì che secondo me emergono le riflessioni su questo fenomeno».
I piccoli personaggi di Gian Mauro Costa torneranno tra due mesi con l’uscita del suo nuovo romanzo, Festa di piazza , per farci esplorare un nuovo aspetto di questa grande città.

martedì 1 maggio 2012

in città con il naso all'insù




da 'Azione' del 30.4.2012

Ricerca artistica, storie da raccontare e provocazioni trovano spazio sui muri di edifici, nella legalità. Un’iniziativa di Lugano per valorizzare la creatività giovanile.

I muri delle nostre città si colorano, si riempiono di scritte e graffiti. Non si tratta più di giudicare se sia un’arte vandalica o meno. Nemmeno di ostinarsi a criticare questi ragazzi che imbrattano muri. Si tratta semplicemente, oggi, di camminare con lo sguardo rivolto verso l’alto, per scoprire con sorpresa che qualcuno ha pensato di illustrare pareti cittadine dimenticate da tempo. In un modo diverso. Graffiti, street art, writer, sono parole ormai entrate a far parte del nostro vocabolario, e da tempo ormai i quesiti aperti sono molteplici. È lecito lasciare che questi giovani autoproclamatisi artisti pitturino a loro piacimento i muri della città? Va loro concesso uno spazio? E non è che poi, questi ragazzi perderanno l’ispirazione perché ciò che interessa loro è l’illegalità? Del resto, lo stesso Banski, l’anonimo celebre writer originario di Bristol che ha elevato la Street Art ad Arte, ha fatto dell’illegalità uno dei punti cardine del suo successo.

Le domande non servono più: a poco a poco la città risponde da sola. Lugano ha deciso infatti di concedere diversi spazi a giovani artisti che si dedicano a graffiti e stencil (maschere normografiche), promuovendo questo tipo di arte – che come tutte le nuove correnti artistiche ha bisogno di correre sui binari secondari appartati prima di poter essere definita tale – e incoraggiando i giovani alla creazione. Il progetto si chiama Arte Urbana Lugano.

Un esempio concreto delle attività promosse dal progetto è ammirabile oggi in via Lavizzari 5, a Lugano. Si tratta dell’opera muraria Pietro non torna indietro di Agostino Iacurci, giovane venticinquenne pugliese che unisce sapientemente l’arte illustrativa ai murali, aprendo porte a nuovi mondi variopinti su muri grigi. Il murale è stato realizzato in una settimana (dal 2 all’8 aprile 2012) durante la quale era possibile osservare in diretta il lavoro dell’artista. Numerosi i passanti che invece di camminare guardandosi la punta delle scarpe, hanno alzato lo sguardo e, procedendo col naso all’insù, si sono chiesti che pubblicità fosse mai quell’enorme uomo in bicicletta. Un rappresentante di Arte Urbana Lugano rispondeva ai curiosi che non si trattava di un’iniziativa commerciale, bensì d’arte. E che Agostino, il ragazzo che si arrampicava sulle impalcature, aveva già eseguito interventi urbani a Roma, Torino e nel deserto del Sahara, ed era stato chiamato dalla Città di Lugano, per colorare un muro privato. Tutti i passanti ripartivano soddisfatti.
Ho approfittato della pausa pranzo dell’artista, un trancio di pizza che lo ha fatto scendere dall’impalcatura, per chiedergli come avesse cominciato a fare quel lavoro.

«Facevo graffiti quando stavo a Foggia, dove il limite tra legale e illegale è molto sottile. Non si trattava di farli in clandestinità, li facevamo e basta. Poi ho smesso, sono andato a Roma a studiare arte, e ho iniziato a fare tele, incisioni, illustrazioni. Ma sono poi tornato al muro, con tutto quello che di nuovo sapevo fare».

Però lo spirito dei graffiti di Foggia è diverso da quello degli interventi urbani promossi dalle istituzioni, e Agostino mi racconta che «i graffiti sono divertimento puro, riferito unicamente a me e ai miei amici. Lo spirito era molto più bello. Adesso si tratta di un nuovo equilibrio tra professione e passione, che per fortuna posso unire. Nei graffiti c’erano solo le mie aspettative, non mi importava nulla della città. Ora ho un altro atteggiamento mentre faccio questo lavoro. Cerco di capire come reagisce la città, come stanno i miei lavori dentro lo spazio urbano. Anche perché ora non posso più ignorare quello che succede attorno a me. Diciamo che è l’esperienza è diventata più seria, anche se io cerco di sdrammatizzare coi soggetti». Sul muro di via Lavizzari sta comparendo un uomo in bicicletta sotto una scia rossa a S. Sorge spontaneo chiedergli da cosa nascano i suoi soggetti:«Dal mio immaginario. Il mio stile è più o meno illustrativo, ma cerco di portarlo fuori dalle illustrazioni, svincolarlo dal racconto. L’illustrazione si fa così incipit di un racconto che poi il cittadino è chiamato a inventare. Cerco soggetti semplici, intelligibili, che contemplino la figura umana: alla fine è questo che favorisce la comunicazione. Li metto in un vuoto, nel nulla, gli faccio fare un’azione banale a tutti riconoscibile, un gioco in equilibrio tra il surreale e il racconto mancato. Anche qui – in via Lavizzari - c’è un incipit: la luce che diventa il raggio rosso e acceca l’uomo in bicicletta. Lui produce la luce con la dinamo, illumina il cammino, ma il suo cammino è cieco. E poi, ognuno ci può vedere quello che vuole. Cerco anche un nesso con il luogo, che c’è sempre, ma quella è la mia, di storia». E più la storia è personale più la curiosità aumenta, quale sarà il nesso tra il ciclista accecato raffigurato sul muro e la città di Lugano però, Agostino non lo vuole rivelare, perché altrimenti «sembrerebbe una chiave di lettura obbligatoria all’opera». Ci svela però che in Pietro non torna indietro c’è Pietro Gori, l’anarchia, il suo punto di vista sul pensiero utopico, e la proprietà privata (http://www.agostinoiacurci.com/).

La facciata di via Lavizzari non è l’unica ad essere scampata a un grigio destino urbano. C’è il tunnel di Besso, che sarà ricoperto dalle opere di giovani artisti del nostro territorio, e prossimamente anche il muro sul fiume di fronte allo Studio Foce. Anche queste iniziative sono promosse da Arte Urbana Lugano. Valeria Donnarumma, Giacomo Grandini e Natalie Soldini confermano la mia idea a proposito della tendenza attuale: «A Lugano abbiamo grandi musei e gallerie, ma nessuno si occupa dei giovani, che spesso devono andare via per trovare spazio. Noi li facciamo lavorare. La street art è la tendenza artistica del momento, ed è giusto mettere Lugano a livello delle altre città». Mi chiedo nuovamente però, se offrendo degli spazi appositi non si snaturi il principio stesso, provocatorio, della street art. Per i tre responsabili di Arte Urbana Lugano questo «dipende. Certo, c’è chi lavora in modo provocatorio e stuzzica situazioni che noi non possiamo alimentare come Città. Ma è giusto comunque che l’artista sia libero di provocare, è anche il suo scopo. La maggior parte dei movimenti d’arte in fondo nasce in maniera sovversiva e si istituzionalizza in seguito, e non per questo perde di valore. Si impara a nascondere la provocazione tra le righe, quando si è meno liberi. Rimane un commento sociale, senza bisogno di ricorrere necessariamente all’illegalità». E chissà se in questa città ci sono writer che chiedono il permesso, per pitturare le pareti. «Arrivano diversi progetti. Parte dei lavori che abbiamo realizzato nascono da proposte spontanee. Noi diamo spazio, ma è importante che questo sia riempito in maniera artistica: ci deve essere qualcosa da dire. Questo significa anche spingere i ragazzi a dire attraverso l’arte qualcosa di concreto, un messaggio».

Quando l’arte si fa urbana, e la città diventa artistica, le pareti si dipingono. Ricerca artistica, storie da raccontare, messaggi da comunicare, slogan e provocazioni trovano spazio sui muri della legalità.

venerdì 27 aprile 2012

la menta sul pavimento

« Signor Presidente, quale sarà il futuro dei nostri bambini »? Andreotti non risponde, piega la testa e rimane immobilizzato in un ghigno per quasi un minuto, finché la conduttrice televisiva, dopo averlo più volte interpellato, lancia bruscamente la pubblicità. Questa scena ha colpito Elisabetta Terlizzi e Francesco Manenti: cosa sarà passato per la mente dell’anziano uomo politico? La domanda diventa inaffrontabile per chi si occupa da troppo tempo ‘ delle cose dei grandi ’? Quali immagini, quali sensazioni avranno immobilizzato il suo corpo? I due artisti di Progetto Brockenhaus, decidono di rispondere al quesito posto ad Andreotti con lo spettacolo La menta sul pavimento.
«Non si tratta di una risposta realistica, ma di un pretesto» – ci racconta Elisabetta, attrice drammaturga e regista insieme a Francesco. « La (non) risposta di Andreotti ci ha scioccato, ispirato e ci ha poi indotti a cercare nella sua mente».

Nasce così questo spettacolo del 2009, rappresentato per la prima volta in Svizzera questa sera, venerdì e domani, sabato, alle 21 al CambusaTeatro di Locarno. I due artisti ci accompagnano attraverso un viaggio surreale in uno spazio pressoché onirico, la materia grigia di Andreotti – menta sul pavimento – rappresentata in scena come una vecchia sala di conferenze: un tavolo e un vecchio cencio che fa da schermo. In questo scenario polveroso due marionette dal cuore umano ci raccontano la propria storia, con una piccola cassa da morto, dalla quale uscirà tutta la loro vitale visione, e quel «fardello che tutti ci portiamo appresso di vita e di morte».


La menta sul pavimento è un gioco di parole: una donna che si la-menta, e al contempo la freschezza rigenerante della menta, come i bambini. «Un ossimoro per portare in scena un gioco che da piccolo e superficiale si fa drammatico». Teatro, danza, video, pittura e fotografia si contaminano in un ensemble estetico che ci restituisce la poetica visione di Progetto Brockenhaus. «Noi non pensiamo mai a quali codici utilizzare ma usiamo tutto, al momento opportuno». Perché vedere questo spettacolo? Per la regista Terlizzi « perché tocca temi importanti, come quello del futuro dei bambini, perché è divertente poesia, perché il disegno luci di Mara Cugusi lo ha reso magia ».

giovedì 5 aprile 2012

poesia rap


da 'La Regione' del 5.4.2011

Le parole suonano una dietro l’altra e vanno diritte al cuore, là dove si annidano le emozioni. La musica pulsa, il ritmo rimbalza, le rime fanno eco ai battiti, in un rap dove non mancano incursioni liriche. Andee (Andrea Spinedi) cattura semplicemente le immagini che lo circondano e le traduce in poesia nell’album Metafora , in uscita il 9 aprile nei negozi di dischi. Il poeta rap però non si occupa solo delle parole, che sceglie e pesa con estrema cura: « So che emozione voglio dare e comincio a creare la base musicale. Quando questa è una bozza, scrivo, e poi comincio a cucire » ci spiega.
L’album, prodotto dalla neonata casa Monsterstune, mixato da Marco Zangirolami (tecnico e musicista che collabora con Fabri Fibra, Dargen D’Amico, Two Fingerz) al Noize Studio di Milano e masterizzato in uno degli studi più importanti d’Italia, il Massive Art, è frutto di un anno di lavoro tra concepimento, scrittura e registrazione. Un viaggio che l’artista ticinese ha compiuto in collaborazione con quattro altri musicisti, Lu, Ene, NayG e Bri dei Neim, per raggiungere un sogno che non ce la faceva più a stare in un cassetto « insieme ai calzini ».


« Nonostante la vita ti riservi esperienze dolorose non devi mollare mai e cercare di realizzare i tuoi sogni perché solo così puoi vivere serenamente », continua Andee parlandoci di Metafora.



Tutti i brani dell’album sono immagini, metafore per spiegare la necessità di vivere quella vita che abbiamo sempre sognato, senza accontentarci di un surrogato. Ce lo racconta un musicista che sin da piccolo ha dovuto fare i conti con la sindrome di Marfan, una malattia genetica che gli ha causato alcune limitazioni ma, come ci racconta, « non ha spento la mia voglia di realizzare un sogno ». Nella sua musica questo aspetto è presente sin dalle prime note, ma viene sempre proposto come trampolino di lancio verso l’autorealizzazione. Andrea lavora come web-designer e per realizzare questo disco ha passato le notti in studio di registrazione. Non si è mai fermato, e gli chiediamo se, secondo lui, questo sia legato al suo problema: «È una domanda che mi sono posto spesso. Sì, ci vuole una spinta. C’è chi comincia a scrivere perché la ragazza l’ha lasciato o perché ha avuto un incidente. E c’è chi scrive perché ha paura di non potersi esprimere totalmente. Quello che io ho vissuto, e che sto vivendo, mi ha fatto capire che non posso fermarmi. Non posso restare lì a guardare senza che la gente possa sentire quello che ho da dire. Ma credo anche che questo impulso non lo insegni nessuno, o ce l’hai o non ce l’hai ».
Metafora è anche il titolo del singolo che ha lanciato il disco, e si può scaricare dalla pagina di Andee facebook.com/andeemetafora. « È il pezzo che più mi rappresenta. Parla di sogni, da mai buttare via, di amore, l’importanza di avere accanto una persona che non perda mai l’entusiasmo di fantasticare, e della necessità che ha il mio cuore di trasmettere qualcosa, anche se finisce di battere. Questa è l’essenza. Parlo di una maglietta che non oso indossare per paura che lavandola il cuore stampato si cancelli, è esattamente questo ».
Nell’album c’è anche la voglia di una vita piena al di là dell’oceano, a New York , la continua ricerca di nuovi ideali da raggiungere ( Foolish ), il rapporto con un padre ( The Heart ), la paura di un amore in crisi ( In mutande ), il mondo del lavoro che ci inghiotte ( La fatina dei denti eMa però ), la malinconia che si prova alla fine dell’ Estate .
E in tutti i brani, tra entusiasmo, poesia e ironia, traspare sempre quella voglia del poeta di « ballare sul sole, mentre il mondo va a letto ».

sabato 31 marzo 2012

il cinema d'autore nel web - ogni giovedì

da 'La Regione' del 31.3.2011


«Andiamo. Sì Andiamo. (Non si muovono)» . L’attualità del celebre finale di Beckett quando si parla di giovani che non hanno il coraggio, di partire, di andare, restando imprigionati in una statica atmosfera di indecisione e paura. È con questa citazione che si apre la ‘webseries’ Bymyside (online da giovedì 29 marzo il primo episodio su Youtube) che, con un linguaggio innovativo e di qualità, ci racconta la storia di tre trentenni che devono fare i conti con la sparizione del cantante del loro gruppo rock.


Passano le nottate appoggiati all’entrata di un grande supermercato di periferia, tra birre, skate, recriminazioni e domande. Lo sguardo della camera è fisso sulle vite di questi tre amici, senza retorica, senza presa di parte, senza mutamenti, come le luci.
Saranno loro, Teo (Pier Luigi Pasino), Bozo (Jacopo Bicocchi) e Sparo (Matteo Alfonso, che in Ticino ha iniziato a collaborare con Cambusa Teatro di Locarno), che a poco a poco faranno emergere la loro voglia di riscatto, o rispettivamente il vuoto dal quale si sentono invasi, svelando anche il mistero legato alla scomparsa di Flippo.


Il film è stato prodotto, diretto e co-sceneggiato da Flavio Parenti (nel ruolo di Flippo), attore italiano emergente che vedremo prossimamente sul grande schermo nel nuovo film di Woody Allen, To Rome with love . Abbiamo intervistato il regista di Bymyside incuriositi dal fenomeno di questa ‘webseries’ che, in un mese dal suo annuncio sulla rete attraverso i social network e il sito ufficiale, conta già migliaia di fan. Questo grazie anche alla comunicazione creata attorno all'evento, volta a alimentare continuamente l’aspettativa per un prodotto di qualità (dagli attori al montaggio) distribuito in maniera assolutamente non elitaria.

Come nasce questo progetto?
«Nasce da una realtà che ha vissuto l’autore, Pier Luigi Pasino. Ha radicato in sé quella sensazione e ha poi scritto il testo, inizialmente per il teatro. C’era una bella necessità, voglia di raccontare quella staticità. Insieme abbiamo co-sceneggiato la stesura cinematografica».

Quello che colpisce è soprattutto l’atmosfera...
«Sì, si entra a poco a poco nell’umanità dei personaggi. Soprattutto si tenta di scavare a fondo i motivi per spiegare quello che è successo. È profondo. E questa profondità si fonde in uno strano connubio con un meccanismo di fruizione in pillole, veloce, superficiale».

È questo che piace del vostro progetto. La gente che fruisce dei prodotti veloci di Internet non per forza è alla ricerca di prodotti superficiali, anzi.
«Sono d’accordo. Siamo a un bivio. Il virale è quanto di più visto, tutti si sono spinti in una fruizione usa e getta, che funziona, ma quanto hai fatto non serve poi all’umanità. Siamo in un momento in cui possiamo ancora mostrare che si può fare anche dell’altro attraverso la rete. Se il nostro esperimento piace, si creerà forse un nuovo ramo di Internet, fatto di contenuti anziché viralità. Penso che sia fondamentale per non trovarsi tra vent’anni unicamente con del marketing senza la narrazione, niente catarsi e solo vendita».

Questo è un anno particolarmente produttivo anche per la tua professione d’attore...
«Ciò che sto facendo adesso, Un matrimonio di Pupi Avati, è una delle esperienze più belle. Passo dall’essere ventenne a settantacinquenne, e attraverso tutte le fasi della vita.
Ma in fondo tutte le esperienze hanno qualcosa. Dipende anche da quanto tu sia aperto in quel momento e predisposto ad accettarle. Lavorare con Tilda Swinton ( Io sono l’amore di Luca Guadagnino) piuttosto che con Murray Abraham e Peter Greenway ( Goltzius and the Pelican Company ) o Woody Allen, sono tutte esperienze strepitose».

E com’è stato lavorare con questi due grandi registi?
«Greenway è molto gentile. Lo incontri alle otto di mattina, alle tre di notte o a mezzogiorno ed è sempre uguale. Una specie di costante, la stessa energia. Ma quando lavori sei in un caos creativo impressionante. Lavorare con Woody Allen è meraviglioso, non è solo un grande regista, ma un inventore, un autore strepitoso. Recitare con lui, avere degli scambi di battute, è stato incredibile».
E per tornare al mondo che Flavio Parenti ha creato attraverso Bymyside , la voglia di andare e la paura di restare sono on line. Un cinema d’autore in tredici episodi che racconta lo smarrimento e l’anima rock della nostra generazione. «Te ne vuoi andare? Dove? Non lo so, dove mi fanno fare quel che ho voglia di fare. E che cosa hai voglia di fare? Qualcosa che mi fa star bene».

venerdì 16 marzo 2012

Teatro: artigianato e umiltà - Teatro d'Emergenza

Che il teatro sia anche artigianato, e quindi sapiente utilizzo del proprio corpo per far vivere i personaggi ed emozionare il pubblico, è un concetto che oggi spesso viene dimenticato. Ma l’idea di un teatro riportato a sé aveva già rivoluzionato gli inizi del Novecento. Gli attori iniziavano allora a essere considerati, dal celebre teorico Gordon Craig in poi, abili maestri dello strumento più importante che avevano, il corpo, dai cui gesti scaturiva la parola.
Questo si definiva artigianato teatrale: tornare ai propri, semplici, strumenti e reimparare a usarli. Nel panorama scenico odierno, purtroppo, sempre più raramente si incontrano attori che hanno l’umiltà di definirsi ancora artigiani del proprio mestiere. Tra questi pochi ci sono Luca Spadaro e Massimiliano Zampetti, 19 anni di lavoro in comune e in continua ricerca, e 23 spettacoli all’attivo come Teatro d’Emergenza.
« Max e io abbiamo sempre avuto una visione molto artigianale di questo mestiere – ci racconta il regista Luca Spadaro –, non so se ogni tanto abbiamo avuto la benedizione divina di fare arte. Noi partiamo facendo dell’artigianato, solido, ben fatto, con la cura del dettaglio. Se si trasforma in arte, bene, altrimenti sarà comunque stato utile ». Abbiamo incontrato la compagnia Teatro d’Emergenza, in scena da stasera al 18 marzo al Foce con Il custode di Pinter (foto), che ci ha fatto partecipe della propria personale visione della scena luganese; scena che per i due attori ha rappresentato agli esordi anche un percorso di formazione
« Abbiamo iniziato lavorando con Coco Leonardi – continua Spadaro –. Negli anni Novanta non c’era tutta quell’enfasi di apparire, andare a tutti i costi su un palco. O facevi l’accademia, o facevi esperienza, e quest’ultima te la guadagnavi. C’era l’umiltà di farla senza essere professionisti. Eravamo ragazzi che stavano provando in piccolo, e accanto avevamo la possibilità di lavorare per le compagnie luganesi, che all’epoca erano poche, ma soprattutto stupende con noi ragazzi. Il Teatro Pan, delle Radici e Sunil: ci offrivano gli spazi, i consigli, e la possibilità di fare i diversi lavori attorno al teatro (attrezzista, aiuto luci, aiuto fonico). Questa è stata parte della nostra formazione. Facendo i nostri esperimenti, tra di noi, e con l’aiuto delle persone di allora: Vania Luraschi, Daniele Finzi Pasca, Cristina Castrillo, che erano adorabili, generosi. Oggi la situazione è cambiata, ci sono più attori che spettatori, e un altro modo di approcciarsi a quest’arte ».
In che senso? «Oggi tutti vogliono salire sul palco, non importa come e con quale esperienza. Noi cerchiamo di far capire che per essere attori non basta fare un corso serale, bisogna lavorare! Si vuol provare a tutti i costi l’emozione di andare in scena. Ma l’emozione va data al pubblico, non a se stessi».
La differenza tra amatorialità e professionalità sta proprio in questo lavoro... «Una volta era molto marcata questa differenza. Noi abbiamo continuato a non definirci professionisti molto dopo aver iniziato a ricevere finanziamenti. Oggi si perdono anche la qualità e la richiesta del pubblico, che ormai si adatta a tutto. C’è dispersione, non si sa più giudicare buoni o meno gli spettacoli, a volte sembra che tutto qui sia meraviglioso. Ma io questa gran meraviglia non la vedo sempre».
La meraviglia di uno strumento artigianale, il corpo dell’attore, che se usato con cura e dovizia non smetterà mai di emozionare il proprio pubblico, forse più di declami e scintille.

Il custode
«In Pinter i personaggi potrebbero essere fotografie scattate la mattina in una qualunque città, appoggiate su un palcoscenico la sera e lasciate lì a deformarsi sotto la luce dei riflettori». Così anche i tre protagonisti della pièce ‘Il custode’, dramma del 1960 di Harold Pinter.
Max Zampetti, nel ruolo di Davis, ci racconta lo spettacolo, dove il vecchietto che rappresenta si affida alle cure di un uomo più giovane, Aston (recitato da Silvia Pietta, una donna, volta a creare lo straniamento voluto dal regista per la messa in scena), che lo salva da una rissa. Più tardi sopraggiungerà il violento fratello maggiore Mike (Mirko D’Urso), al quale nonostante le aggressioni Davis chiederà protezione.
«La sintesi dello spettacolo è che troppo spesso ci mettiamo nelle mani di persone violente, che riteniamo ci possano proteggere perché più forti, ma non forzatamente più generose. Pinter è lucidissimo nella scrittura, crea una drammaturgia dove tutti gli elementi sono presenti. Un drammaturgo attore, chiarissimo nella sua complessità. È un nostro autore guida, studiato da anni, ma mai messo in scena. Questo suo testo nasconde un forte discorso politico: ci svela come siamo, con aggraziata ironia».
 
 

giovedì 8 marzo 2012

L'attesa del teatro ticinese - e.s. teatro

 Il Cortile è uno di quegli spazi nati negli ultimi anni nel nostro cantone, creati da persone che sentono la necessità di portare avanti un proprio discorso artistico indipendente. Si tratta di luoghi solitamente ai margini della città, ai margini di una proposta artistica ufficiale, tra centralità e periferia, tra mondanità e arte popolare.
Questo piccolo teatro, creato a partire da un magazzino a Viganello nel 2006 da Emanuele Santoro, è uno spazio artistico dove e.s.Teatro prova e mette in scena i suoi spettacoli, ha una scuola per ‘microattori’ e ospita rassegne locali. Abbiamo incontrato il fondatore di e.s.Teatro, proprio al Cortile, per conoscere meglio lui, il suo lavoro e la sua ultima produzione, Aspettando Godot , in scena da domani (venerdì) all’11 marzo al Foce di Lugano.

Chi è e.s.Teatro? «e.s. Teatro nasce nel 2003 come bisogno di cominciare a parlare una mia lingua, fare delle cose mie, tant’è vero che il nome della compagnia porta le mie iniziali! Ho debuttato con un adattamento del Caligola di Camus, e da lì ho proposto una produzione all’anno toccando parecchi classici. Questi parlano continuamente di noi, anche a distanza di secoli, e al contempo danno al regista la possibilità di proporre interpretazioni personali. Da qui nascono le varie riduzioni e adattamenti particolari, dal repertorio strettamente shakespeariano a Cervantes e poi Dostoevskij. Da qualche anno affronto il teatro dell’assurdo e quello contemporaneo, mettendo in scena autori italiani ancora poco rappresentati nel loro Paese, parlo di Edoardo Erba e Spiro Scimone».

Cosa vuol dire lavorare in un territorio come quello ticinese? «Noi viviamo in una terra strana, un crocevia, e la maggior parte delle compagnie alla fine se ne va. Inoltre, c’è poca sinergia, poca collaborazione. Stiamo parlando di un fazzoletto di terra, grande quanto un quartiere di Milano, che nonostante riunisca una quantità incredibile di proposte, queste non riescono a unire le forze. La realtà ticinese è variegata, si va dalla clownerie al teatro di narrazione, passando per il teatro di prosa e di parola, per approdare al teatro sperimentale. Questo potrebbe essere una forza, se visto in un contesto generale. Ma noi, che vi siamo dentro, ci sfioriamo e non ci tocchiamo mai».

Come valuta la qualità del teatro ticinese? «Vi sono lavori molto interessanti. Ma bisogna stare attenti ad avere sempre uno scambio, un confronto con l’esterno, altrimenti si rischia di autocompiacersi troppo facilmente. Qui infatti si fa presto a dare giudizi, e mi riferisco sia ai critici sia al pubblico. Questi giudizi, a volte dati senza cognizione di causa e necessaria competenza, possono decidere del destino di uno spettacolo, per questo non bisognerebbe fermarsi alla dimensione locale».

Spesso però la realtà locale viene adombrata dai cartelloni ufficiali...
«Esatto, salvo la felice eccezione del Dicastero Giovani Eventi ( Home, ndr ), è difficile avere una vetrina più ufficiale attraverso la quale farsi conoscere da un pubblico che esiste: le stagioni ufficiali sono seguite assiduamente. Se in quel contesto venissero inserite anche le realtà locali, queste prenderebbero più piede. Non dovrebbe trattarsi di occasioni eccezionali, dovrebbe essere una regola. Alla fine, ciò che conta è la curiosità, e sarebbe così bello poterla sollecitare nel pubblico locale».

Aspettando Godot
V: «Andiamocene». E: «Non si può». V: «Perché?». E: «Aspettiamo Godot». Due uomini ne attendono un terzo, che non arriva. ‘Aspettando Godot’ è un testo che, come tutta la produzione di Beckett, ha rivoluzionato il teatro a livello formale. Scritta come una commedia, modellata sui suoi meccanismi, in realtà mette in scena la tragedia umana. E: «Troviamo sempre qualcosa, vero, Didi, per darci l’impressione di esistere?».
Perché ha deciso di mettere in scena ‘Aspettando Godot’? «Perché è un sogno che ho nel cassetto da tempo, e con questa pièce sento il bisogno di raccontarmi. Non potrei prescindere dal contatto viscerale che ho con il testo per farlo, per me il teatro è questo. Mi sento vicino al messaggio, alla sostanza che c’è nell’opera».
Parla anche di lei quindi? «Sì, ma anche di noi, del punto in cui siamo oggi, di questa enorme confusione. Non c’è direzione, tutte sono aperte. Dobbiamo parlare per riempire i vuoti e ci inventiamo cosa dire. Questo aspettare qualcosa, qualcuno, è proprio dell’essere umano. Giorno per giorno ci coinvolgiamo in un sistema che a volte non ricordiamo più a cosa porta e se l’abbiamo scelto noi. E ciò che noi siamo convinti di aspettare: sappiamo cos’è? Lo vogliamo veramente? Siamo sicuri che non ci è già passato davanti? È un tema ampio, ognuno si può riconoscere».
 

martedì 28 febbraio 2012

A LuganoIn Scena il Teatro del presente affronta 'La Fine'

Che rapporto intercorre tra una nostra società iper-consumistica e la morte? Babilonia Teatri, la compagnia in scena lunedì scorso al Foce, ha affrontato la questione con lo spettacolo The end (Premio Ubu 2011 'Nuovo testo italiano'). Una drammaturgia dai toni forti, intensa, frasi scandite in monologhi sincopati ci buttano in faccia una realtà: siamo parte di un mondo egoista dove un'umanità performante, non può e non vuole vedere e sentir parlare di morte. Perché la morte puzza, è brutta, non è igienica. Certo, esiste, come lo dimostra il tempo che passa. Ma se l'età che avanza può essere cancellata da volti e corpi con la gomma della chirurgia estetica, lo stesso non si può dire per la morte. Anche se non la si vuol vedere, perché 'cuore non duole se occhio non vede', prima o poi busserà alla porta. Tentante allora l'idea di un boia che disbrighi le scomode faccende per noi, accorci la sofferenza, nasconda il decadimento, e ci faccia svanire soli, magari con un bel colpo di pistola. Insomma, la scintillante società del nuovo millennio che vorrebbe, a conti fatti, un trattamento da far west.
In scena, a scandire queste 'verità', è Valeria Raimondi. L'attrice, in abito paillettes con una pistola nella cintola, è quasi pietrificata e recita i propri versi di una ballata rap mono-tono, nella quale sono facilmente riconoscibili i temi odierni correlati all'idea di morte: accanimento terapeutico, eutanasia e suicidio assistito, ma anche solitudine e vecchiaia. Cornice è una società dei consumi raccontata con la dura schiettezza di una voce che sfida il pubblico, in un crescendo di parole che tengono gli spettatori inchiodati alle loro sedie fattesi improvvisamente scomode. La scenografia d'impatto aiuta nel proprio intento provocatorio la compagnia: sul palcoscenico viene issato un gigantesco crocifisso a mostrarci quel Cristo venuto al mondo per salvarci. Accanto a lui compariranno le teste mozzate di un asinello e un bue. La tematica è forte, ma lo schiaffeggiarla senza sosta al pubblico, senza pudori e intimità, rischia di estremizzare un argomento che non andrebbe degradato al mero ruolo provocatorio e meriterebbe un più delicato approfondimento. Sul finale compare in scena, in braccio alla propria madre, il figlio dell'attrice, un deus ex machina volto a darci speranza mentre in sottofondo risuonano assordanti le note dei Doors. Ma il pubblico è colpito e confuso, non basta l'innocenza di una nuova vita a cancellare quanto ha visto, e a risolvere una delle più spinose questioni del nostro tempo.

giovedì 23 febbraio 2012

di pancia, di cuore... da ridere

da 'La Regione Ticino' del 23 febbraio 2012

‘‘Il riso ha in sé qualcosa di rivoluzionario’’, diceva il filosofo russo Alexander Herzen. E lo sa bene Chiara Pelossi-Angelucci, l’autrice de Di pancia, di cuore... da ridere , che in poco più di un mese è riuscita a vendere duemila copie del suo romanzo autoprodotto, diventando un piccolo caso editoriale in Ticino. Lo sa perché questo libro, che fa tanto ridere, ha avuto un buonissimo successo di pubblico (quarto in classifica nelle librerie ticinesi), e lo sa perché, grazie a questo libro, anche lei si è «rivoluzionata».
La scrittrice locarnese si porta infatti sulle spalle una storia «mica da ridere» , che è riuscita a superare proprio grazie alla scrittura e all’effetto benefico che le storie da lei raccontate hanno avuto su di sé.

Chiara ha due bambini e un marito, è una mamma e moglie felice. La figlia più piccola però, Anna, è nata con una grave malformazione all’esofago. Una malattia che ha profondamente sconvolto l’esistenza tranquilla della famiglia, ma che ha anche fatto scoprire a Chiara di avere dentro di sé una forza più grande di quanto immaginasse: lei e suo marito hanno preso di petto la situazione, e hanno reagito. Tutta l’energia che si può mettere in un’impresa del genere però, vivendo per l’altro prima che per se stessi, dopo due anni è andata affievolendosi, e quando Anna iniziava a stare meglio, Chiara ha cominciato a subire un normalissimo contraccolpo. E allora, in un periodo dove il panico la faceva da padrone e dove persino andare a prender la posta poteva rappresentare una difficoltà, l’autrice ha iniziato a sentire il sano bisogno di... ridere! Ha iniziato così a leggere solo libri divertenti, nutrendosi al contempo di film comici, finché un giorno ha deciso, esaurita la riserva di pellicole e pagine, di iniziare a scrivere lei stessa qualcosa che la facesse divertire, «perché andarlo a cercare quando lo posso fare io?» .

È iniziata così l’avventura Di pancia, di cuore... da ridere , un libro che effettivamente permette di lasciarsi andare alle emozioni della pancia e alle farfalle, al cuore. Una mezz’ora al giorno solo per sé, scrivendo: così Chiara comincia a dar vita a Lina, piccola eroina dei giorni nostri. Leggere le sue avventure è come passare una serata in compagnia delle proprie amiche di sempre ascoltando confidenze, a volte ridicole, a volte scabrose, a volte commoventi, a volte scioccanti, appassionarsi per la vita di qualcuno che sentiamo improvvisamente così simile a noi. Si ride con la consapevolezza di una profondità nascosta tra le pagine che però ci mantiene leggeri, perché i messaggi, anche quelli tosti, li si può accogliere anche con la dovuta levità d’animo.

Comicità e autoironia, armi essenziali per una ragazza di 24 anni come Lina che affronta il mondo d’oggi. Un mondo confuso e con esempi e valori apparentemente allo sbaraglio, da ricercare, per scoprire che in realtà sono proprio là dove si dovevano trovare. Un mondo dove le piccole crisi di panico – e chi non le ha ormai? – sono all’ordine del giorno, dove avere dei genitori completamente normali è un’utopia, dove la spiritualità è a un congresso new age come dalla cartomante all’angolo, ma anche in un campo nomadi; dove l’amore è ancora possibile, sempre; dove l’amicizia vince, gli anziani sono amanti passionali e i figli più seri di quanto si creda. Lina è una ragazza che seguiamo per un istante relativamente breve, due settimane durante le quali prende delle decisioni importanti e inizia a munirsi di alcuni strumenti che le permetteranno di capire un po’ meglio la propria vita, e quella di chi la circonda. Una sorta di mini bildungsroman contemporaneo e condensato, scritto con destrezza e semplicità. A contrastare i due anni fuori dall’ordinario di Chiara Pelossi, due settimane di vita quotidiana di Lina. A contrastare il pianto, le risa in una di quelle storie che vorremmo sentire di continuo. L’autrice ha trovato il modo per sopravvivere in un periodo buio, e della sua dolce forza coinvolgente fa partecipi tutti, ma proprio tutti. Dando un’occhiata al suo sito Internet si possono cogliere i commenti entusiasti dei più svariati lettori: dal docente alla libraia, dalla casalinga allo scrittore, dall’informatico alla bisnonna, tutti affermano di aver divorato il libro, sia chi lo fa per professione sia chi non legge mai.

No, « non è facile scrivere qualcosa di comico e ridicolo quando la vita va proprio all’opposto », afferma l’autrice, ma forse è proprio questo che fa, il miracolo del riso.

Di pancia, di cuore... da ridere è edito da autorinediti e il 10 per cento del ricavato è devoluto in beneficenza all’associazione Alessia di Vernate, che si occupa di aiutare i bambini ammalati e le loro famiglie.

mercoledì 8 febbraio 2012

‘I fisici’, lo spettacolo di Dürrenmatt all’Agorà di Magliaso

di Valentina Grignoli, La Regione dell'8 febbraio 2012


Sono passati quasi cinquant’anni (l’anniversario cade il 21 febbraio) dalla prima di Die Physiker a Zurigo, le dinamiche mondiali sono cambiate, ma l’attualità dell’opera di Friedrich Dürrenmatt è intatta. È vero infatti che se a modificarsi sono gli assetti e gli equilibri di potere del nostro globo, lo stesso non vale per quei concetti fondamentali che stanno alla base di potere, genio e libertà.
I fisici è una tra le pièce più famose del drammaturgo svizzero, scritta a cavallo tra gli anni Cinquanta e Sessanta, quando la seconda guerra mondiale era ancora un fresco ricordo e la guerra fredda, gli esperimenti sulle fissioni nucleari, erano la realtà. Una ‘commedia nera’, dove il pessimismo di fondo si unisce all’umorismo, al sarcasmo e al cinismo in un grottesco sempre più spettacolare, attraverso la quale l’autore vuole denunciare le tragiche conseguenze delle scoperte scientifiche (il riferimento alla guerra atomica è subito evidente), l’abuso di potere sulle menti geniali e la responsabilità degli scienziati nella divulgazione delle proprie scoperte. Ma rimane una commedia, perché, come diceva bene Ionesco ‘ Il comico, occhiata diretta nell’assurdo, contiene più disperazione del tragico ’.

I fisici è in scena, rivisitata, sino al 12 febbraio all’Agorà Teatro, con la sapiente regia di Claudio Orlandini, marchio di fabbrica di questa piccola ma fertile realtà a Magliaso. Una rappresentazione che conferma il lavoro di qualità dell’associazione culturale fondata dallo stesso regista e da Marzio Paioni. Gli attori de I fisici sono freschi della formazione di Agorà Teatro, e si intravede nella loro recitazione quel lavoro di ricerca sull’espressività umana insito in ogni attore, che contraddistingue il percorso artistico di questa scuola (sorta di ‘satellite’ ticinese di Quelli di Grock di Milano). Un lavoro che rende pienamente omaggio al capolavoro di Dürrenmatt, dove il grottesco è sempre presente in tutte le sue variazioni.

Nello spazio angusto di Magliaso, che vuole ricostruire (e ci riesce) le stanze della casa di curamanicomio Les Cérisiers, vediamo alternarsi i cinque attori in quasi tutti i ruoli della pièce:
incontriamo Möbius, il fisico svizzero che finge di vedere e colloquiare con Re Salomone per salvaguardare le sue scoperte scientifiche; Beutler, detto Newton ma in realtà Kilton, ed Ernesti, detto Einstein ma in realtà Eisler, due fisici di potenze contrapposte che vogliono sottrarre il lavoro di Möbius.

Con loro la luciferina direttrice della clinica, la signorina Mathilde von Zahnd, unica erede ancora sana (a suo dire) di un’antica e nobile stirpe, che ha maniacali mire egemoniche; le sue belle infermiere, l’agente di polizia e l’altro personale ausiliario.
Punto di partenza l’omicidio di un’infermiera, al quale seguirà un’indagine, che presto si trasformerà nella scoperta di un mondo dove il limite tra genio e follia viene inesorabilmente infranto. Uno spettacolo ricco di colpi di scena, ritmato da canzoni simili a didascalie brechtiane, dalla scenografia mobile e intrigante, che porta lo spettatore a una verità valida ancora oggi: ‘ Ci sono dei rischi che non bisogna correre, mai. E uno di questi è la distruzione dell’umanità ’. Antonella Gabrielli, Michele Gianella, Ruben Moroni, Philippe Schafer e Michela Zanetti fanno rivivere, tra risa e spaventi, tra prigioni e maschere, il dramma di una libertà possibile solo se muta, in maniera fresca e vitale. ‘ Pazzi, eppure saggi. Prigionieri, eppure liberi. Fisici, eppure innocenti ’.

'Racconto d'inverno' a Lugano


Un Racconto d'inverno per narrare della follia amorosa, di donne e uomini e di potere. Tutto questo con la potenza di una tragicommedia esilarante. L'opera di Shakespeare, scritta nel 1611 a cinque anni dalla sua morte, ispirata all'Otello ma con l' happy and che tutti avremmo sognato per Giulietta e Romeo, è in scena al Cittadella di Lugano dal 7 febbraio a questa sera. Prodotto da Teatridithalia, con la regia di Ferdinando Bruni e Elio De Capitani registi-attori del Teatro dell'Elfo di Milano, Racconto d'inverno è una splendida opera sull'amore, giocata da attori di grande talento. La pièce, la meno rappresentata in Italia tra le opere di Shakespeare, snocciola in due atti dal ritmo incalzante una lunga serie di verità incastonate tra quelle splendide metafore e jeux de mots che solo la delicata genialità di Shakespeare sa offrire. Il Racconto è quello di Leonte, re di Sicilia, che viene accecato dalla gelosia nei confronti di sua moglie, la bella e virtuosa Ermione, e del suo migliore amico, il fido Polissene re di Boemia. La gelosia è immotivata, ma Leonte ci trascina con sé nei meandri della sua follia paranoica. Una prima parte tragica quindi, che vede la sparizione via via di diversi personaggi e l'isolamento progressivo del re, che pentito rimane solo con Paulina, amica della moglie persa. Ma chiude l'atto la speranza della vita che continua, in una splendida immagine con la neve di Boemia contro il mare mosso, e la principessa Perdita, la neonata di Ermione ripudiata da Leonte, salvata. Accanto alla perdita di razionalità maschile però, si fa largo una forza e lucidità femminile, rivoluzionaria per i tempi in cui la pièce fu scritta. Shakespeare, sapiente maestro delle passioni umane, confuta i pregiudizi misogini dell'epoca dotando le sue protagoniste di solidità e coraggio. Facendo questo orna le sue principesse di quell'arguzia, ironia e sfrontatezze di cui solitamente vestivano le sue popolane. Il secondo atto dello spettacolo, più comico, si svolge in Boemia, luogo esotico non ben precisato dove i toni cupi della prima parte lasciano spazio a colori, dialetti, feste e farse. Dove il tempo, anche se sappiamo che sono passati 16 anni, non è più definito, dove accanto al re c'è un venditore ambulante, dove un principe (Florizel, figlio di Polissene), si innamora della bellissima figlia di una trattora (quella Perdita ritrovata) ed è pronto a rinunciare al suo lignaggio per il amore.
In Racconto d'inverno ci sono tutti gli ingredienti per un grande spettacolo, dalla bravura degli attori, sopra tutti il Leonte di Ferdinando Bruni, alla coraggiosa messa in scena con elementi ogni epoca e luogo, in un testo estremamente moderno.

lunedì 6 febbraio 2012

Passerelle, ‘Shabbath’ si perde fra i colori dell’angoscia

di Valentina Grignoli, La Regione del 6 febbraio 2012

 

Un’anima, filo d’erba nella prateria. Io e te, giardiniere, siamo uguali. Vedo questi colori, li capisco, ma non mi parlano .
Voci off, di Antoinette Werner e di Marco Capodieci (Tasi), a volte in italiano, a volte in francese, ritmano, sottolineano e riempiono lo spazio. Sul palcoscenico, le due brave ballerine della compagnia Cie Interface di Sion, Stèphanie Boll e Gèraldine Lonfat, eseguono con forza espressiva controllata una danza umana in continua evoluzione. Gioco di luci e di ombre in movimento, aria tangibile e fumi pesanti, e sullo sfondo un muro disegnato: questa l’ermetica scenografia. Accompagna le due danzatrici, con la sua presenza statuaria, un tenore, Nicolas Gravier, che sbilancia gli equilibri, abbraccia e respinge, e muove con la propria potente voce l’aria.

Shabbath , in scena sabato al Teatro Foce in occasione della rassegna Passerelle, è uno spettacolo ‘ multidisciplinare di danza contemporanea che unisce tutte le dimensioni possibili del teatro, della musica, del canto e della danza dando una totale visione di bellezza e forza espressiva ’. Così il programma di sala, ma come, nella realtà? Potremmo rispondere Vedo questi colori, li capisco, ma non mi parlano. Lo spettacolo vuole infatti mettere in scena troppo, in troppi linguaggi, visivi, musicali, sensoriali e corporei; vuole scendere negli abissi dell’animo umano ripercorrendo al contempo un secolo di guerra.

C’è la grazia, c’è la forza, ma queste purtroppo svaniscono tra frasi dal senso sibillino. C’è la guerra, c’è il dolore, la morte e la memoria. Ma la bellezza, tranne quella della danza, non è apparsa. Ciò che abbiamo invece visto, sentito e provato, è stata una profonda angoscia (un intento catartico?) scaturita inevitabilmente dai toni cupi di luci e musica. La stessa angoscia dell’ Urlo di Edward Munch sul ponte di Nordstrand (ricordata dalla maschera presente in scena), o del grido « Quale orrore! Quale orrore! » di Kurz nel Cuore di Tenebra di Joseph Conrad.
Insomma, ci si guarda dentro, ci si guarda indietro. Due azioni complicate da compiere contemporaneamente. Anche se in un giorno di Shabbath , il riposo che induce alla riflessione per quanto fatto finora. Uno spettacolo, quello della compagnia Interface, che vuole mettere in scena una ricerca personale di sé e del senso di umanità. Ma che noi spettatori siamo costretti a vivere con profondo senso di torturato smarrimento, testimoni di un’analisi introspettiva. E vien da chiedersi: perché in questo crudo mondo, quando già la realtà non sempre si presenta sotto i toni più allegri – siamo già prigionieri di piombo allineati – l’arte non si fa veicolo di più poetica evasione?

martedì 31 gennaio 2012

Al Parenti di Milano la rappresentazione iconoclasta del volto del figlio di Dio

Da 'La Regione Ticino',
di Valentina Grignoli 

‘Vi state vendendo per trenta denari’. La scritta nera campeggia quasi surreale sul cartellone di un manifestante. Ci troviamo a pochi passi dal Teatro Franco Parenti, dove sabato sera si è tenuta l’ultima rappresentazione milanese del discusso spettacolo di Romeo Castellucci, Sul concetto di volto nel figlio di Dio , definito più volte blasfemo.
Nonostante le lettere di protesta, le minacce espresse nei confronti del regista ravennate, lo spettacolo ha avuto luogo, anche se il tratto della via dove ha sede il teatro è stato bloccato da polizia e carabinieri in divisa che ne permettono l’accesso solo a chi possiede il biglietto. Un gruppetto di ferventi cattolici contro un dispiegamento (esagerato?) di forze dell’ordine, per un teatro colmo di appassionati, ma non solo. Ormai la diatriba più ‘calda’ di Milano ha trascinato in sala anche una larga fetta di curiosi, decisi ad assistere alla rappresentazione che tanto fa discutere i salotti della città.

Ma di che cosa parla, veramente, Sul concetto di volto nel figlio di Dio? Si tratta seriamente di quell’offesa ai valori cristiani che tanto ha scaldato curia e nuovi devoti? Dalla nostra esperienza abbiamo riscontrato che l’offesa è ben lungi dall’essere tale, sempre che con questa non si voglia intendere la messa in discussione del comandamento ‘Onora il padre e la madre’, o la crisi di Fede, nata dalla profonda riflessione di Romeo Castellucci sul destino umano.
Risulta difficile esprimere un giudizio critico obiettivo su uno spettacolo che, prima ancora d’esser visto, è stato largamente discusso sulle principali testate giornalistiche da grandi penne, difeso dallo stesso regista con un’efficiente lettera aperta e infine preso come simbolo per affermare quella libertà d’espressione che, nel mondo contemporaneo, dovrebbe essere ormai acquisita e digerita.

Lo spettacolo è d’impatto, la scena alla quale assistiamo mostra un figlio che cura il proprio padre incontinente, nel suo lento degrado verso la fine. Una fatica degna di Sisifo, il continuo tentativo di pulizia e di ritorno all’ordine, in una situazione che peggiora sempre più. Sullo sfondo campeggia imponente la raffigurazione del volto di Cristo (Salvator mundi, nella foto) di Antonello da Messina che ci guarda con estrema dolcezza. La tensione sale sempre più sino allo svuotamento fisico totale dell’uomo, svuotamento di senso, e alla sconfitta del figlio. Il dipinto poi verrà macchiato di nero inchiostro (quello delle Sacre Scritture che non basta più) con gesto iconoclasta e strappato, lasciando il posto alla scritta ‘You are (not) my Shepherd’, in un crescendo musicale ad alta tensione (Scott Gibbons).

Non si vuole provocatorio, a detta di Castellucci, ma risulta tale, questo spettacolo in cui vengono inscenati elementi tipicamente provocatori. Il gioco iperrealista dei due storici attori della Societas Raffaello Sanzio (Sergio Scarlatella e Gianni Palazzi) funziona e tiene gli spettatori appesi a un filo che poi però alla fine si spezza e riempie di interrogativi. L’impressione finale non è soddisfatta pienamente e lascia un po’ perplessi.

Perché tanto baccano? Si tratta di uno spettacolo forte, ma i temi trattati non sono certo rivoluzionari e quanto vediamo in scena non aggiunge molto di più all’idea che uno spettatore può farsi di quel senso di perdita di valori, di svuotamento, di quel decadimento umano prima, con l’assistere alla malattia del padre, e umano poi, con una messa in questione dell’identità del proprio pastore.
Uno spettacolo di cui, verrebbe da aggiungere, si è parlato troppo, sporcato, più che dagli escrementi e dall’inchiostro da quegli stessi manifestanti apparentemente innocui, e dalle giustificate reazioni che ne sono conseguite. Uno spettacolo che si è fatto tristemente evento mediatico e mondano, prima che profonda riflessione, e che purtroppo ha strappato a quel curioso pubblico solo un tiepido applauso.

Per maggiori informazioni sullo spettacolo