martedì 31 gennaio 2012

Al Parenti di Milano la rappresentazione iconoclasta del volto del figlio di Dio

Da 'La Regione Ticino',
di Valentina Grignoli 

‘Vi state vendendo per trenta denari’. La scritta nera campeggia quasi surreale sul cartellone di un manifestante. Ci troviamo a pochi passi dal Teatro Franco Parenti, dove sabato sera si è tenuta l’ultima rappresentazione milanese del discusso spettacolo di Romeo Castellucci, Sul concetto di volto nel figlio di Dio , definito più volte blasfemo.
Nonostante le lettere di protesta, le minacce espresse nei confronti del regista ravennate, lo spettacolo ha avuto luogo, anche se il tratto della via dove ha sede il teatro è stato bloccato da polizia e carabinieri in divisa che ne permettono l’accesso solo a chi possiede il biglietto. Un gruppetto di ferventi cattolici contro un dispiegamento (esagerato?) di forze dell’ordine, per un teatro colmo di appassionati, ma non solo. Ormai la diatriba più ‘calda’ di Milano ha trascinato in sala anche una larga fetta di curiosi, decisi ad assistere alla rappresentazione che tanto fa discutere i salotti della città.

Ma di che cosa parla, veramente, Sul concetto di volto nel figlio di Dio? Si tratta seriamente di quell’offesa ai valori cristiani che tanto ha scaldato curia e nuovi devoti? Dalla nostra esperienza abbiamo riscontrato che l’offesa è ben lungi dall’essere tale, sempre che con questa non si voglia intendere la messa in discussione del comandamento ‘Onora il padre e la madre’, o la crisi di Fede, nata dalla profonda riflessione di Romeo Castellucci sul destino umano.
Risulta difficile esprimere un giudizio critico obiettivo su uno spettacolo che, prima ancora d’esser visto, è stato largamente discusso sulle principali testate giornalistiche da grandi penne, difeso dallo stesso regista con un’efficiente lettera aperta e infine preso come simbolo per affermare quella libertà d’espressione che, nel mondo contemporaneo, dovrebbe essere ormai acquisita e digerita.

Lo spettacolo è d’impatto, la scena alla quale assistiamo mostra un figlio che cura il proprio padre incontinente, nel suo lento degrado verso la fine. Una fatica degna di Sisifo, il continuo tentativo di pulizia e di ritorno all’ordine, in una situazione che peggiora sempre più. Sullo sfondo campeggia imponente la raffigurazione del volto di Cristo (Salvator mundi, nella foto) di Antonello da Messina che ci guarda con estrema dolcezza. La tensione sale sempre più sino allo svuotamento fisico totale dell’uomo, svuotamento di senso, e alla sconfitta del figlio. Il dipinto poi verrà macchiato di nero inchiostro (quello delle Sacre Scritture che non basta più) con gesto iconoclasta e strappato, lasciando il posto alla scritta ‘You are (not) my Shepherd’, in un crescendo musicale ad alta tensione (Scott Gibbons).

Non si vuole provocatorio, a detta di Castellucci, ma risulta tale, questo spettacolo in cui vengono inscenati elementi tipicamente provocatori. Il gioco iperrealista dei due storici attori della Societas Raffaello Sanzio (Sergio Scarlatella e Gianni Palazzi) funziona e tiene gli spettatori appesi a un filo che poi però alla fine si spezza e riempie di interrogativi. L’impressione finale non è soddisfatta pienamente e lascia un po’ perplessi.

Perché tanto baccano? Si tratta di uno spettacolo forte, ma i temi trattati non sono certo rivoluzionari e quanto vediamo in scena non aggiunge molto di più all’idea che uno spettatore può farsi di quel senso di perdita di valori, di svuotamento, di quel decadimento umano prima, con l’assistere alla malattia del padre, e umano poi, con una messa in questione dell’identità del proprio pastore.
Uno spettacolo di cui, verrebbe da aggiungere, si è parlato troppo, sporcato, più che dagli escrementi e dall’inchiostro da quegli stessi manifestanti apparentemente innocui, e dalle giustificate reazioni che ne sono conseguite. Uno spettacolo che si è fatto tristemente evento mediatico e mondano, prima che profonda riflessione, e che purtroppo ha strappato a quel curioso pubblico solo un tiepido applauso.

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